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Carattere democratico dell’educazione linguistica: cosa significa e perché è socialmente rilevante

Il linguaggio verbale è di fondamentale importanza nella vita sociale e individuale perché, grazie alla padronanza sia ricettiva (capacità di capire) sia produttiva di parole e fraseggio, possiamo intendere gli altri e farci intendere (usi comunicativi), intervenire a trasformare l’esperienza stessa (usi emotivi, argomentativi, ecc.).

Non si limita l’importanza del linguaggio verbale, ma lo si colloca meglio, sottolineando che in generale e negli esseri umani in specie esso è una delle forme assunte dalla capacità di comunicare, che si è variamente denominata capacità simbolica fondamentale o capacità semiologica (o semiotica). E, di nuovo sia in generale e in teoria sia nel concreto e specifico sviluppo degli organismi umani, il linguaggio verbale intrattiene rapporti assai stretti con le restanti capacità ed attività espressive e simboliche.[1]

Questo enuncia la prima delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL,[2] manifesto programmatico del 1975 per il rinnovamento dell’insegnamento dell’italiano e tratto fondamentale di un lungo percorso intellettuale (peraltro non privo di ostacoli) che in Italia ha avuto in Tullio de Mauro il suo principale protagonista.

La consapevolezza della necessità di un’educazione linguistica democratica era in nuce già da tempo nell’opera di De Mauro, probabilmente ancor prima di fondare nel 1967 (l’anno in cui don Milani scrisse la sua Lettera a una professoressa) la Società di linguistica italiana. Tale idea prese dunque vigore nella Storia linguistica dell’Italia unita che De Mauro aggiornò in ben due edizioni successive alla prima,[3]consolidando il suo ruolo di riferimento scientifico per tutti quei linguisti che ogni giorno operano per il rinnovamento dell’insegnamento dell’italiano nelle istituzioni scolastiche e accademiche. E l’Educazione linguistica democratica,[4]opera pubblicata post mortem, rappresenta la sua consegna. Lascio alle sue parole la spiegazione del suo significato

Come ricorda Tullio de Mauro, l’educazione linguistica democratica non può essere confusa con l’educazione linguistica tout court, più o meno tradizionale: «cercare di far lavorare in senso democratico l’educazione linguistica è qualcosa di diverso, di aggiuntivo, rispetto al semplice costrutto linguistico-educativo», mira all’inclusione, al «non uno di meno», prova a eliminare fratture e ostacoli e a «tracciare la via più efficace per permettere agli allievi e alle allieve di impadronirsi sempre meglio dell’italiano nei suoi diversi usi». L’aggettivo «democratico» chiama in causa la scelta di obiettivi conformi al dettato della Costituzione della Repubblica (artt. 3, 6 e 21). Non è necessario «agitare bandiere». «Basta che sia efficiente davvero, basta realizzarla parte per parte, e democratica allora lo è, anzi confessiamocelo, è persino un po’ eversiva».[5]

Di centralità dell’educazione linguistica tratta esplicitamente anche il Decreto Ministeriale del 9 febbraio 1979 su Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale (inferiore) nelle linee guida per l’insegnamento dell’italiano.[6] Ma anche di inclusione scolastica, al suo Art. 2, in riferimento alla Legge 517/77. Ma un sistema educativo non potrebbe definirsi democratico se non promuovesse, con tutti i mezzi a sua disposizione, l’inclusione scolastica; educando – di conseguenza – all’inclusione sociale. Di ciò qui tratterò solo brevemente prendendo spunto, ancora una volta, da quanto De Mauro scrisse della lingua italiana come principale fattore di coesione dell’Italia unita, attribuendo al cinema sonoro e, soprattutto alla televisione (due media che impegnano anche la vista, oltre all’udito) il merito di averla diffusa in forma corretta e simile a quella colloquiale, e di aver così contribuito ad abbassare alti livelli di analfabetismo.[7]

E se l’italiano è stato il principale fattore di coesione sociale a cavallo tra XIX e XX secolo, può esserlo, a maggior ragione, anche in questa fase storica in cui l’Italia è crocevia dei flussi migratori mediterranei.

Dopo varie “tappe” legislative che partono dalla Legge 118 del 1971, che consentì ai portatori di handicap l’accesso nella scuola per tutti, l’inclusione scolastica in Italia è ormai un obbligo. Il sistema scolastico italiano ha espresso la sua vocazione democratica anche nei sei atti normativi che, tra il 1974 e l’anno successivo, istituirono e regolarono i decreti delegati. Senza dimenticare che questo processo di democratizzazione comprende anche il movimento di riforma della psichiatria che con la Legge 180/78, nota come legge Basaglia, deistituzionalizzò la malattia mentale affidando ai servizi territoriali l’inclusione sociale di questa specifica forma di handicap.[8]

In conclusione, nonostante l’Italia sia già il migliore fra i paesi dell’Unione Europea per inclusione scolastica, si può fare ancora molto per articolarla e radicarla.

NOTE

[1] De Mauro T. (2018) p. 269.

[2] Il GISCEL, acronimo di Gruppo d’Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica, è nato nel 1973 per filiazione diretta dalla Società di linguistica italiana, e farà del rinnovamento della pedagogia linguistica tradizionale il suo cavallo di battaglia, anzi la sua unica ragion d’essere. Lo Duca M.G. (2013) p. 42.

[3] De Mauro T. (1963, 1970, 2011).

[4] De Mauro T. (2018).

[5] Loiero S., Marchese M.A. in De Mauro T. (2018) pp. VIII – XIX.

[6] Il linguaggio verbale ha una sua evidente centralità. D.M. 9 febbraio1979 p. 12.

[7] De Mauro T. (1995) pp. 433 – 443.

[8] Altre leggi varate a garanzia dell’inclusione e della democrazia scolastica in Italia sono state:

L. 118/71 diritto di accesso per i disabili alle scuole di tutti (le scuole speciali della riforma Gentile restarono solo per i casi più gravi). Questa legge non tratta problematiche pedagogiche, ma solo tecnico-logistiche;

L. 360/76 estensione del diritto di accesso ai ciechi alla scuola indifferenziata;

L. 517/77 estensione dello stesso diritto per i sordomuti. Questa legge prevede anche la chiusura di tutte le classi differenziali istituite dalla L. 1859/62, e l’istituzione dell’insegnante di sostegno (per la classe, non solo per l’alunno);

L. 104/92 sistematizza e approfondisce le misure volte a garantire pari opportunità educative alle persone disabili;

con la  L. 18/09 l’Italia ratifica la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità;

L.170/2010 riconosce i disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, discalculia, disgrafia e disortografia) al fine di predisporre misure specifiche;

nel 2012 la direttiva 27 e la circolare applicativa 8 stabiliscono l’estensione della categoria BES (bisogni educativi speciali) a soggetti con svantaggi socio-economici o linguistico-culturali;

il decreto attuativo 66/2017 della Buona Scuola (L. 107/15) sostituisce il concetto di integrazione con quello di inclusione, rendendolo uno dei parametri valutativi della qualità dell’istituto scolastico. Lucisano P, Zanazzi S., Pedagogia sperimentale. L’inclusione a scuola, https://elearning.unitelma.it/mod/kalvidres/view/php?id=97144 .

 

 

 

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Pubblicato da antoniofacchin

Laurea e Master in scienze umanistiche, romano di cultura europea, Antonio Facchin scrive della quotidiana programmazione cine-televisiva sui principali canali del digitale terrestre per VigilanzaTv ( https://www.vigilanzatv.it ), testata giornalistica online dedicata all’informazione su iniziative e lavori della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. Risponde su antoniofacchin@gmail.com

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