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Abstract

Come Tullio de Mauro insegna, l’italiano è stato il principale fattore di coesione dopo l’Unità d’Italia. Oggi, in una fase di trasformazione multietnica del Paese, può tornare a esserlo. E l’impiego di immagini nella didattica può favorirne l’apprendimento, come dimostra la casa editrice Loescher nei suoi materiali per l’insegnamento dell’italiano L2, lingua seconda, cioè appresa prevalentemente in contesti extrascolastici.

Le immagini giocano tuttavia un ruolo fondamentale anche nella didattica per la dislessia – e per tutti gli altri disturbi specifici di linguaggio e apprendimento –  per l’autismo e per la sindrome di Asperger. E solo una scuola che includa ed educhi gli stranieri, e tutti gli altri soggetti con bisogni educativi speciali, può definirsi a tutti gli effetti democratica.

Dei tanti ostacoli esistenti, uno potremmo rimuoverlo: il metalinguaggio in uso nei testi scolastici di grammatica. Che è un ostacolo per gli stranieri, nonché il principale responsabile del disamore per la cultura da parte di troppi italiani.

 

 

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Indice

CARATTERE DEMOCRATICO DELL’EDUCAZIONE LINGUISTICA: COSA SIGNIFICA E PERCHÉ È SOCIALMENTE RILEVANTE

LA CENTRALITÀ DELL’IMMAGINE NELLA CULTURA OCCIDENTALE

I FATTORI CHE INNESCANO E REGOLANO L’APPRENDIMENTO

L’apprendimento e i suoi processi

L’apprendimento per le neuro-scienze

I neuro-processi alla base dell’apprendimento

Codifica e decodifica (o transcodifica)

La memoria di lavoro

La memoria di lavoro nello sviluppo atipico

L’attenzione

LA FUNZIONE DELL’IMMAGINE NELLA DIDATTICA PER L2

LA FUNZIONE DELL’IMMAGINE NELLA DIDATTICA PER LA DISLESSIA

IL PROGRAMMA DI ARRICCHIMENTO STRUMENTALE DI REUVEN FEUERSTEIN

METALINGUAGGIO: L’IRRESISTIBILE TENTAZIONE DEGLI INTELLETTUALI

BIBLIOGRAFIA

OPERE CITATE

Carattere democratico dell’educazione linguistica: cosa significa e perché è socialmente rilevante

Il linguaggio verbale è di fondamentale importanza nella vita sociale e individuale perché, grazie alla padronanza sia ricettiva (capacità di capire) sia produttiva di parole e fraseggio, possiamo intendere gli altri e farci intendere (usi comunicativi), intervenire a trasformare l’esperienza stessa (usi emotivi, argomentativi, ecc.).

Non si limita l’importanza del linguaggio verbale, ma lo si colloca meglio, sottolineando che in generale e negli esseri umani in specie esso è una delle forme assunte dalla capacità di comunicare, che si è variamente denominata capacità simbolica fondamentale o capacità semiologica (o semiotica). E, di nuovo sia in generale e in teoria sia nel concreto e specifico sviluppo degli organismi umani, il linguaggio verbale intrattiene rapporti assai stretti con le restanti capacità ed attività espressive e simboliche.[1]

Questo enuncia la prima delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL,[2] manifesto programmatico del 1975 per il rinnovamento dell’insegnamento dell’italiano e tratto fondamentale di un lungo percorso intellettuale (peraltro non privo di ostacoli) che in Italia ha avuto in Tullio de Mauro il suo principale protagonista.

La consapevolezza della necessità di un’educazione linguistica democratica era in nuce già da tempo nell’opera di De Mauro, probabilmente ancor prima di fondare nel 1967 (l’anno in cui don Milani scrisse la sua Lettera a una professoressa) la Società di linguistica italiana. Tale idea prese dunque vigore nella Storia linguistica dell’Italia unita che De Mauro aggiornò in ben due edizioni successive alla prima,[3]consolidando il suo ruolo di riferimento scientifico per tutti quei linguisti che ogni giorno operano per il rinnovamento dell’insegnamento dell’italiano nelle istituzioni scolastiche e accademiche. E l’Educazione linguistica democratica,[4]opera pubblicata post mortem, rappresenta la sua consegna. Lascio alle sue parole la spiegazione del suo significato

Come ricorda Tullio de Mauro, l’educazione linguistica democratica non può essere confusa con l’educazione linguistica tout court, più o meno tradizionale: «cercare di far lavorare in senso democratico l’educazione linguistica è qualcosa di diverso, di aggiuntivo, rispetto al semplice costrutto linguistico-educativo», mira all’inclusione, al «non uno di meno», prova a eliminare fratture e ostacoli e a «tracciare la via più efficace per permettere agli allievi e alle allieve di impadronirsi sempre meglio dell’italiano nei suoi diversi usi». L’aggettivo «democratico» chiama in causa la scelta di obiettivi conformi al dettato della Costituzione della Repubblica (artt. 3, 6 e 21). Non è necessario «agitare bandiere». «Basta che sia efficiente davvero, basta realizzarla parte per parte, e democratica allora lo è, anzi confessiamocelo, è persino un po’ eversiva».[5]

Di centralità dell’educazione linguistica tratta esplicitamente anche il Decreto Ministeriale del 9 febbraio 1979 su Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale (inferiore) nelle linee guida per l’insegnamento dell’italiano.[6] Ma anche di inclusione scolastica, al suo Art. 2, in riferimento alla Legge 517/77. Ma un sistema educativo non potrebbe definirsi democratico se non promuovesse, con tutti i mezzi a sua disposizione, l’inclusione scolastica; educando – di conseguenza – all’inclusione sociale. Di ciò qui tratterò solo brevemente prendendo spunto, ancora una volta, da quanto De Mauro scrisse della lingua italiana come principale fattore di coesione dell’Italia unita, attribuendo al cinema sonoro e, soprattutto alla televisione (due media che impegnano anche la vista, oltre all’udito) il merito di averla diffusa in forma corretta e simile a quella colloquiale, e di aver così contribuito ad abbassare alti livelli di analfabetismo.[7]

E se l’italiano è stato il principale fattore di coesione sociale a cavallo tra XIX e XX secolo, può esserlo, a maggior ragione, anche in questa fase storica in cui l’Italia è crocevia dei flussi migratori mediterranei.

Dopo varie “tappe” legislative che partono dalla Legge 118 del 1971, che consentì ai portatori di handicap l’accesso nella scuola per tutti, l’inclusione scolastica in Italia è ormai un obbligo. Il sistema scolastico italiano ha espresso la sua vocazione democratica anche nei sei atti normativi che, tra il 1974 e l’anno successivo, istituirono e regolarono i decreti delegati. Senza dimenticare che questo processo di democratizzazione comprende anche il movimento di riforma della psichiatria che con la Legge 180/78, nota come legge Basaglia, deistituzionalizzò la malattia mentale affidando ai servizi territoriali l’inclusione sociale di questa specifica forma di handicap.[8]

In conclusione, nonostante l’Italia sia già il migliore fra i paesi dell’Unione Europea per inclusione scolastica, si può fare ancora molto per articolarla e radicarla.

NOTE

[1] De Mauro T. (2018) p. 269.

[2] Il GISCEL, acronimo di Gruppo d’Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica, è nato nel 1973 per filiazione diretta dalla Società di linguistica italiana, e farà del rinnovamento della pedagogia linguistica tradizionale il suo cavallo di battaglia, anzi la sua unica ragion d’essere. Lo Duca M.G. (2013) p. 42.

[3] De Mauro T. (1963, 1970, 2011).

[4] De Mauro T. (2018).

[5] Loiero S., Marchese M.A. in De Mauro T. (2018) pp. VIII – XIX.

[6] Il linguaggio verbale ha una sua evidente centralità. D.M. 9 febbraio1979 p. 12.

[7] De Mauro T. (1995) pp. 433 – 443.

[8] Altre leggi varate a garanzia dell’inclusione e della democrazia scolastica in Italia sono state:

L. 118/71 diritto di accesso per i disabili alle scuole di tutti (le scuole speciali della riforma Gentile restarono solo per i casi più gravi). Questa legge non tratta problematiche pedagogiche, ma solo tecnico-logistiche;

L. 360/76 estensione del diritto di accesso ai ciechi alla scuola indifferenziata;

L. 517/77 estensione dello stesso diritto per i sordomuti. Questa legge prevede anche la chiusura di tutte le classi differenziali istituite dalla L. 1859/62, e l’istituzione dell’insegnante di sostegno (per la classe, non solo per l’alunno);

L. 104/92 sistematizza e approfondisce le misure volte a garantire pari opportunità educative alle persone disabili;

con la  L. 18/09 l’Italia ratifica la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità;

L.170/2010 riconosce i disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, discalculia, disgrafia e disortografia) al fine di predisporre misure specifiche;

nel 2012 la direttiva 27 e la circolare applicativa 8 stabiliscono l’estensione della categoria BES (bisogni educativi speciali) a soggetti con svantaggi socio-economici o linguistico-culturali;

il decreto attuativo 66/2017 della Buona Scuola (L. 107/15) sostituisce il concetto di integrazione con quello di inclusione, rendendolo uno dei parametri valutativi della qualità dell’istituto scolastico. Lucisano P, Zanazzi S., Pedagogia sperimentale. L’inclusione a scuola, https://elearning.unitelma.it/mod/kalvidres/view/php?id=97144 .

 

 

 

La centralità dell’immagine nella cultura occidentale

L’abilità linguistica del parlare è stata presumibilmente la prima delle quattro ritenute culturalmente fondamentali[1] a essersi sviluppata, anche se non siamo in grado di ricostruirne l’origine. Giambattista Vico nei suoi Princìpi di scienza nuova[2] ne diede un’interpretazione suggestiva: l’immaginazione dell’uomo primordiale venne un giorno “destata” da un tuono. Tuono al quale erano molto simili i versi gutturali emessi dal nostro antenato, indotto ad alzare gli occhi al cielo in risposta. In quell’istante il lampo di un fulmine impressionò l’immaginazione di quell’homo erectus in modo analogo a quello in cui la luce impressiona una pellicola fotografica. Quell’immagine divenne l’idea di un dio, origine delle origini e prima immagine che un’immaginazione primordiale avesse mai concepito. E fu il primo atto semiotico se è vero che

la semiotica dà una sorta di spiegazione fotomeccanica della semiosi rivelando che, là dove noi vediamo immagini, vi sono aggiustamenti strategici di punti bianchi e neri, alternanze di pieni e vuoti, pullulare di tratti non significanti del retino differenziabili per forma, posizione, intensità cromatica.[3]

Pur non potendo sapere esattamente come andarono le cose, se potessimo immaginare di comunicare col solo pensiero, probabilmente lo faremmo trasmettendoci l’un l’altro impressioni, idee, sensazioni e sentimenti sotto forma di un’immagine. A riprova di ciò è il successo degli emoticon, simboli[4] di uso ormai comune che ci consentono di associare uno stato d’animo a un breve messaggio scritto, nonostante l’esigua possibilità di scelta. Gli emoticon non arrivano infatti a esprimere tutta l’ampia gamma delle sfumature di significato di concetti, idee e sensazioni che siamo in grado di esprimere con le parole, con l’espressione del volto, grazie alla prossemica, o col tono di voce. E nessuna immagine simbolica riuscirà mai a riprodurre quella straordinaria commistione di sensazioni, sentimenti, ricordi, sensualità e descrizioni delle immagini visive associatevi, che sono riusciti a esprimere, in uno “stream of consciousness”, Proust, Woolf e Joyce – solo per citarne i più grandi artefici – con le parole su pagina.

La nostra volontà di indagare le origini si ferma a quella della scrittura. E, che si parli di pittogrammi,[5] cunei,[6] ideogrammi,[7] o geroglifici,[8] sempre a immagini simboliche ci riferiamo. Basti pensare a com’è nato il nostro alfabeto: a partire da simboli che hanno subìto un processo di astrazione e di elaborazione concettuale.

Ma l’immagine riveste un ruolo fondamentale all’origine della scrittura tanto quanto è importante nelle culture orali in virtù della sua capacità evocativa. Basti pensare alla tecnica degli epiteti nei poemi omerici, e a quella di tutti i cantori successivi. O alla tecnica dei drammaturghi, antichi e moderni che, senza scenografia, sono stati capaci di costruire ambientazioni con il solo uso della parola. William Shakespeare conferì massima espressione al potere immaginifico della parola affinando una tecnica, quella che gli anglisti definiscono “imagery”, alla quale affidò l’espressione dei sentimenti dei suoi personaggi principali. Tutta la sua opera di drammaturgo è dunque permeata di linguaggio figurato.

Sullo stretto legame che esiste tra un’immagine e il concetto che essa rappresenta si è esercitata anche la filosofia teoretica. Ernst Cassirer ne ha tratto un’autentica filosofia delle forme simboliche per la quale un’immagine simbolica è un tratto necessario dell’ideale percorso che, da un’impressione sensoriale, giunge alla formazione del suo concetto.[9]

La nostra quotidianità è pervasa di linguaggio figurato la cui natura sfugge talvolta alla nostra consapevolezza, tanto esso è diffuso. Il linguista George Lakoff e il filosofo Mark Johnson hanno scritto negli anni Ottanta dello scorso secolo le loro «osservazioni su come il linguaggio può riflettere il sistema concettuale dei suoi parlanti».[10]

Ne è nato Metafora e vita quotidiana, il testo di riferimento sulla metafora americana – ma anche su metonimia[11] e sineddoche[12] – che nulla toglie a quanto Umberto Eco ha scritto alla voce metafora nell’Enciclopedia Einaudi, che comprende anche un repertorio tecnico-critico delle principali definizioni in uso nei vocabolari. E «se la metafora» per Eco «fonda il linguaggio, non si può parlare della metafora se non metaforicamente».[13]

La metafora per Tullio de Mauro invece è, dal punto di vista linguistico, una «figura retorica che consiste nel trasferire il significato di una parola o di una espressione dal senso proprio a un altro figurato che abbia con il primo un rapporto di somiglianza».[14]

Lakoff e Johnson dal canto loro hanno però messo in luce che la metafora non è solo un mero artificio letterario. È un’espressione concettuale profondamente radicata nella nostra comunicazione quotidiana, nel nostro pensiero, nelle nostre azioni:

Il nostro comune sistema concettuale, in base al quale pensiamo ed agiamo, è essenzialmente di natura metaforica. I concetti che regolano il nostro pensiero non riguardano solo il nostro intelletto, ma regolano anche le nostre attività quotidiane, fino nei minimi particolari; essi strutturano ciò che noi percepiamo, il modo in cui ci muoviamo nel mondo e in cui ci rapportiamo agli altri. Il nostro sistema concettuale gioca quindi un ruolo centrale nella definizione delle nostre realtà quotidiane. Se abbiamo ragione a ipotizzare che il nostro sistema concettuale è in larga misura metaforico, allora la metafora viene a rivestire un ruolo centrale nel nostro pensiero, nella nostra esperienza e nelle nostre azioni quotidiane. Normalmente però noi non siamo consapevoli del nostro sistema concettuale; nella maggior parte delle piccole azioni che quotidianamente compiamo, noi semplicemente pensiamo e agiamo in modo più o meno automatico, seguendo certe linee di comportamento. La difficoltà risiede proprio nel definire cosa sono queste linee.

Una possibilità per individuarle, è prendere in considerazione il linguaggio; infatti, dal momento che la comunicazione è basata sullo stesso sistema concettuale che regola il nostro pensiero e la nostra azione, il linguaggio costituisce un’importante fonte per determinare come è fatto questo sistema.[15]

Un esempio per tutti

Noi concettualizziamo il campo visivo come un contenitore e ciò che vediamo come interno ad esso. Perfino il termine «campo visivo» suggerisce questa interpretazione. Tale metafora è di tipo naturale e deriva dal fatto che quando noi guardiamo un qualunque territorio (terra, pavimento ecc.) il nostro campo visivo definisce un limite a tale spazio, e precisamente la parte che noi possiamo vedere. […] Così possiamo dire «Sta entrando nel mio campo visivo».[16]

Ben più esplicita al riguardo è stata Federica Casadei nel suo Metafore ed espressioni idiomatiche che così descrive ed elenca quelle di natura visiva: «Guardare di sbieco/di traverso, guardare in cagnesco, fare l’occhio di triglia,[…] aguzzare la vista/occhi/ciglia, […] avere/tenere gli occhi aperti, dormire a occhi aperti […], dormire con un occhio solo […]».[17]

Linguaggio figurato è anche quello degli indici[18] e delle icòne[19] che Charles Sanders Peirce considera categorie generali dei segni, alla stregua dei simboli, in base al collegamento che esprimono tra il significante e ciò che il segno indica.[20]  E sono a carattere figurativo anche tutte le «comunicazioni visive» che Umberto Eco enumera nel suo La struttura assente come le segnaletiche ad alta convenzionalizzazione, l’abbigliamento (ma anche Eco rimanda in questo caso a ciò che Roland Barthes afferma ne Il senso della moda)[21]. E i sistemi visivo-verbali che comprendono il linguaggio di cinema e televisione, dei fumetti, della pubblicità, dei rebus e di alcuni giochi di società solo per citare i più diffusi.[22]

Oggigiorno l’immagine è diventata l’elemento prevalente nella comunicazione, in uso su smartphone e tablet, al punto da prevalere sul concetto.[23] Pedagogia ed etnografia si sono già naturalmente occupate di questo fenomeno. In altri termini, da corsia preferenziale nella gestazione di un concetto, l’immagine rischia di diventarne il principale ostacolo. Ugo Fabietti riferisce infatti come

il linguaggio televisivo, e in misura minore altre forme di trasmissione delle informazioni per immagini (cinema, Internet, fumetti, messaggi SMS ecc.) abbiano spesso comportato un regresso sul piano della ricchezza lessicale e delle conoscenze linguistiche da parte di certe fasce sociali e d’età. Un esperimento condotto in Italia alcuni anni fa da alcuni pedagogisti è consistito nel far svolgere ai bambini di quarta elementare un dettato proposto cinquant’anni prima a scolari della stessa classe. Ebbene, gli errori di ortografia erano quasi quadruplicati. Segno del fatto che tra suono e scrittura non c’erano più quelle corrispondenze che esistevano invece mezzo secolo prima. La conclusione dei ricercatori è che non essendo più i ragazzi delle elementari abituati a scrivere come una volta, a fissare cioè la “forma della parola”, la loro scrittura è incerta al punto che molti di loro arrivano a scrivere parole con significati diversi da quelle che sono state loro dettate. [24]

Certamente questo processo affina altre doti, ma alla luce di tutto ciò, un approccio comunicativo o didattico che riconosca all’immagine pari dignità del concetto, in virtù della sua efficacia comunicativa, rischia di diventare addirittura indispensabile e di grande attualità, anche per chi non presenta problemi clinici, o per chi ha ormai raggiunto l’età adulta.

In ogni caso l’aver riflettuto, nel corso di questo breve ciclo di studi, sugli strumenti e le procedure atte a comunicare concetti a discenti con bisogni educativi speciali[25] mi ha indotto a immaginare come anche le nozioni di una grammatica potrebbero essere impartite più efficacemente rispetto al passato se solo se ne semplificasse il linguaggio tecnico (in altri termini il metalinguaggio), e se le nozioni fossero sintetizzate quanto più possibile in un’immagine pensata per trasmetterle. In forma analoga a quella di alcuni materiali didattici concepiti per discenti con bisogni educativi speciali, in cui l’uso dell’immagine – e l’eventuale ricorso alla sua animazione grazie ai più comuni dispositivi elettronici – è al momento attuale l’espressione più evoluta di una didattica specialistica.

NOTE

Nell’immagine la riproduzione fotografica della Stele di Rosetta, l’iscrizione in tre diversi registri (e relative grafie), che consentì a Jean-François Champollion la decifrazione dei geroglifici (1822). È custodita a Londra al British Museum.

[1] Le altre abilità fondamentali sono la scrittura, la lettura e l’ascolto.

[2] I Princìpi di Scienza Nuova di Giambattista Vico sono un’importante riflessione culturale sulle origini della scienza moderna che ha dato origine alla scienza dei segni, in una parola semiotica, ovvero la scienza della comunicazione tout court. De Mauro T. (1996) p. 9.

[3] Eco U. (1994) pp. 74 – 75.

[4] Simbolo è quanto evoca o rappresenta, per convenzione o per naturale associazione di idee, un concetto astratto, una condizione, una situazione, una realtà più vasta. De Mauro T. (1999) Vol. VI, p. 73.

[5] Rappresentazione grafica di oggetti, idee e situazioni, e altri oggetti o concetti collegati, tracciati prevalentemente su parete in epoca preistorica. De Renzo F. (2005).

[6] L’espressione si riferisce alla scrittura cuneiforme: segni a forma prevalentemente piramidale e a orientamento orizzontale, impressi grazie a uno stilo su tavolette di argilla, ad uso commerciale, dai Sumeri in Mesopotamia (l’attuale Iraq) tra il 3250 e il 3100 a.C.. Francesco de Renzo così ce ne ha descritto la natura: la prima scrittura sumerica era dunque una scrittura ideografica e mista, nella quale cioè a un ideogramma poteva corrispondere un oggetto, un’idea astratta o anche il suono della parola. In seguito la scrittura sumerica si sviluppò fino a diventare sillabica. […] Ma non giunse a utilizzare i segni alfabetici. De Renzo F. (2005).

[7] Rappresentazione grafica delle idee. Sistema di scrittura che non tiene conto dell’aspetto fonologico del linguaggio, bensì fa uso di simboli (ideogrammi) che si pongono in rapporto immediato con un contenuto mentale. L’ideografia sta alla base dell’antica scrittura sumera e egiziana e della scrittura cinese. Ideografia in AAVV.  (1972) Vol. X, p. 101.

[8] Ideogrammi che valgono per l’oggetto, per l’intero suono della parola, per una serie di suoni, ma anche ideogrammi “alfabetici”, che valgono cioè per un solo suono. […] funzionavano come veri e propri rebus dove lettere e disegni vanno letti insieme per formare parole e frasi […] i geroglifici non avevano le lettere, per cui si deve immaginare al posto della p il disegno di un oggetto in cui il suono p sia facilmente riconoscibile […] Gli antichi Egizi conoscevano dunque il principio alfabetico, ma non avevano realizzato un loro alfabeto. De Renzo F. (2005).

[9] Il simbolo costituisce sempre un primo e necessario passo per l’acquisizione della conoscenza obiettiva dell’essenza. Il simbolo costituisce per la conoscenza, per così dire, il primo stadio e la prima prova dell’obiettività perché, grazie ad esso, per la prima volta viene offerto un punto fermo al perenne mutare del contenuto della coscienza, perché in esso viene determinato e messo in rilievo un elemento permanente. […] Per mezzo del simbolo, legato ad un contenuto, questo acquista in se stesso una nuova consistenza e una nuova durata. Perché al simbolo, in opposizione al reale mutarsi del contenuto singolo della coscienza, compete un determinato significato ideale che come tale permane. Esso non è, al pari della semplice sensazione data, un fatto assolutamente singolo e irripetibile, ma si presenta come rappresentante di una totalità, di un complesso di contenuti possibili, di fronte a ciascuno dei quali esso rappresenta quindi un primo “universale”. […] Ogni linguaggio in quanto tale è “rappresentazione”, è presentazione di un “significato” determinato mediante un “simbolo” sensibile. Fino a quando la considerazione filosofica rimane nell’ambito della pura esistenza, non ha in sostanza la possibilità di trovare alcuna analogia né alcuna espressione adeguata per questo speciale rapporto. Cassirer E. (1961 – 1966) Vol. I, pp. 25 e 74.

[10] Lakoff G., Johnson M. (1982) p. 15.

[11] Figura retorica consistente nell’espressione di un concetto con un termine diverso da quello proprio ma a esso legato da un rapporto di dipendenza. De Mauro T. (1999) Vol. IV, p. 157.

[12] Figura retorica affine alla metonimia, consistente nel trasferire il significato da una parola all’altra sulla base di un rapporto di contiguità materiale, come nel caso del tutto per la parte, della parte per il tutto, del singolare per il plurale. De Mauro T. (1999) Vol. VI, p. 90.

[13] Eco U. (1980) Vol. IX, p. 192.

[14] De Mauro T. (1999) Vol. IV, p. 137.

[15] Lakoff G., Johnson M. (1982) pp. 19 – 20.

[16] Lakoff G., Johnson M. (1982) p. 48.

[17] Ne ho selezionate solo alcune a titolo di esempio. Casadei F. (1996) pp. 245 – 246.

[18] Una banderuola o una manica a vento che indicano ai piloti la direzione del vento sono segni strettamente collegati a ciò che indicano. Il vento soffia in una certa direzione e fa orientare nello stesso senso banderuola o manica a vento. Siamo dunque in presenza di “indici”. De Mauro T. (1997) p. 20.

[19] Le “icòne” (la parola viene dal vocabolo latino icona, tratto da quello greco εικòν “immagine”) sono segni nei quali il significato rassomiglia in qualche modo a cose che il segno indica. La sagoma del cavallo in un segnale stradale, il disegno del cavallo fatto da un bambino o da Simone Martini sono icòne del cavallo. De Mauro T. (1997) p. 20.

[20] De Mauro T. (1997).

[21] Barthes R. (1998) pp. 60 – 131.

[22] Eco U. (1968) p. 402.

[23] Sugli effetti dell’utilizzo intensivo di smartphone e tablet e della navigazione nel WEB si invita alla visione di Iperconnessi, trasmissione di Raitre del 15 ottobre 2018, disponibile su RaiPlay, realizzata dalla giornalista Lisa Iotti per Presa Diretta di Riccardo Iacona.

[24] Fabietti U. (2015) p. 101.

[25] L’espressione, che è sintetizzata nell’acronimo BES, comprende tutti i casi di svantaggio fisico, comportamentale, intellettivo, sociale, emotivo, economico e linguistico.

I fattori che innescano e regolano l’apprendimento

L’apprendimento e i suoi processi

Come Margherita Orsolini, docente di psicologia dello sviluppo e dell’educazione a La Sapienza, sottolinea in Difficoltà di lettura nei bambini

fino a qualche decina di anni fa l’apprendimento della lettura e della scrittura non veniva considerato un oggetto d’indagine della psicologia, ma soltanto un argomento pedagogico. Il motivo era abbastanza ovvio: leggere e scrivere venivano considerate tecniche o strumenti, puro frutto di un insegnamento e di un apprendimento. […]

Dobbiamo alla conoscenza delle teorie di Lev Vygotskij[1] un radicale cambio di prospettiva[2]

Prima di tutto è diventata più chiara la profonda diversità tra lingue parlate e lingue scritte. È una diversità di usi, di processi cognitivi sottostanti, di modalità di apprendimento. Anche la lettura e la scrittura, così come la lingua parlata, sono funzioni psichiche “superiori” (Vygotskij, 1974), la cui origine è culturale, ma al tempo stesso radicata nello sviluppo biologico-naturale del bambino. Come altre funzioni psichiche superiori, lettura e scrittura non si apprendono né per pura imitazione, né semplicemente memorizzando alcune regole, bensì attraverso uno sviluppo interno. [3]

Infatti, come sostiene anche Antonella Reffieuna[4] in Come funziona l’apprendimento

La definizione più generale di apprendimento è quella che lo considera come un cambiamento di natura incrementale: «è il processo attraverso il quale le conoscenze sono acquisite, elaborate o modificata attraverso lo studio, l’addestramento e l’esperienza» (Ford e Lerner, 1992, p.73). Nella definizione vi sono alcuni punti degni di attenzione, anche perché tali da comportare conseguenze operative di non scarsa importanza.

  1. In primo luogo l’apprendimento viene considerato un processo. Ciò significa che:
  • ha luogo nel corso del tempo […];
  • si realizza in rapporto a un obiettivo da raggiungere, in riferimento al quale può essere poi valutato;
  • è articolato in una serie di processi sottostanti i quali sono fra loro in rapporto gerarchico.

Per questo motivo il processo (di per sé astratto) deve tradursi in una serie di procedure operative. Il processo definisce il modello a cui si deve conformare il comportamento degli individui e quindi permette di precisare che cosa ci si attende da loro.

 I processi coinvolti nell’apprendimento dunque comprendono

correzione immagine apprendimento

processi che rendono possibile l’apprendimento in generale (attenzione, memoria, linguaggio), i processi-chiave dell’apprendimento scolastico (codifica e decodifica) e processi che sono il risultato dell’apprendimento stesso (scrittura, lettura e calcolo).[5][…]

  1. Apprendere non significa necessariamente acquisire nuove conoscenze. Attiene all’apprendimento anche la costruzione di nuove relazioni tra conoscenze già disponibili e la modificazione di quelle pregresse. […] L’apprendimento comporta quindi, in ogni caso, la costruzione di qualcosa di nuovo, anche se può essere nuovo solo per il singolo individuo.
  2. L’apprendimento ha luogo secondo tre modalità: l’esperienza diretta, l’addestramento, lo studio. Il ricorso all’una piuttosto che all’altra dipende dal contesto in cui esso si realizza (la scuola, la casa, un luogo extrascolastico) e da ciò che deve essere appreso (un’abilità, un contenuto disciplinare, una capacità complessa). Tutte e tre le modalità devono trovare posto a scuola, anche se in quest’ultima lo studio assume maggiore rilevanza. Si consideri ad esempio che l’acquisizione legata ai movimenti della scrittura comporta necessariamente la messa in atto di processi simili all’addestramento, in quanto l’allievo deve acquisire la fluenza e l’automatismo; l’acquisizione di comportamenti sociali adeguati necessita inevitabilmente di esperienze dirette di vita sociale; l’apprendimento della matematica o della storia è possibile solo grazie allo studio. Proporre agli allievi esclusivamente attività di studio significa non consentire il raggiungimento di elevati livelli di padronanza.
  3. L’apprendimento si deve comunque risolvere in un incremento delle conoscenze, delle capacità possedute, della complessità dei comportamenti che l’allievo mette in atto e del livello di complessità dell’interazione con l’ambiente (Ford e Lerner, 1992). Incremento non significa semplicemente «aggiunta quantitativa». […] L’incremento di complessità dovrebbe infatti portare alla progettazione di percorsi di apprendimento fondati su una gradualità non estrinseca e non riferita solo alle nozioni disciplinari, ma connessa ai comportamenti messi in atto dagli allievi. Con l’aumentare dell’età si dovrebbe assistere alla messa in atto di abilità sempre più raffinate e organizzate, tali da far fronte alle richieste di compiti sempre più specifici e specializzati. […]

L’apprendimento è quindi la sintesi di numerosi cambiamenti a breve termine che conducono, a lungo termine, all’emergere di nuove conoscenze e nuove capacità (Fischer e Granott, 1995).[6]

L’apprendimento per le neuro-scienze

Ancora più incisiva nell’analisi dei processi cognitivi, perché disciplina sperimentale, è la psicolinguistica, scienza che studia in laboratorio i processi neuro-cognitivi nel momento in cui avvengono, per la quale

mentre l’efficacia dei giudizi di accettabilità[7] come mezzo per accedere alla conoscenza implicita, intuitiva, senza attivare meccanismi di processing,[8] è stata recentemente più volte messa in discussione, hanno preso piede tecniche di osservazione della competenza che si servono di marcatori fisiologici (Rastelli 2013), siano essi misure dell’attività cerebrale (attraverso la risonanza magnetico-funzionale –fMRI-, la tomografia a emissione di positroni –PET- i potenziali elettro-correlati-PET) o misure indirette dell’attenzione (come l’osservazione dei movimenti oculari –eye tracking). Queste diverse tecniche hanno in comune che osservano reazioni involontarie dell’apprendente a uno stimolo linguistico, cioè reazioni sulle quali l’apprendente non ha controllo cosciente, e che per questo sono ritenute manifestazione diretta della competenza depositata nel cervello a livello subcosciente, prima che entrino in gioco da un lato attività di riflessione esplicita, dall’altro l’attività di processing che presiede all’esecuzione di un compito comunicativo. Occorre dire che, anche in questo caso, il parlante “fa” qualcosa a livello di processing, quando elabora uno stimolo linguistico: ad esempio, nel caso in cui lo stimolo linguistico sia di tipo scritto, il parlante deve decodificare lo stimolo mettendo in azione le procedure di processing che presiedono alla lettura. Il vantaggio rispetto alle canoniche tecniche di osservazione del comportamento linguistico risiederebbe però nel fatto che ai parlanti non è richiesto un tipo di risposta comportamentale in reazione allo stimolo: l’unica attività di processing – perlomeno, l’unica attività di processing esplicitamente richiesta – è legata alla decodifica dello stimolo verbale.[9]

I neuro-processi alla base dell’apprendimento

Codifica e decodifica[10]

La decodifica di uno stimolo verbale è uno dei principali neuro-processi alla base dell’apprendimento; un passaggio d’obbligo per tutti, sempre e comunque.

Il processo di decodifica è quello coinvolto nella lettura e comporta la trasformazione del segno scritto in suono. Il processo di codifica è invece coinvolto nella scrittura e comporta la trasformazione inversa: dal suono al segno scritto. L’apprendimento della lingua scritta richiede necessariamente la padronanza dei due processi, i quali, se imperfetti, sono all’origine di disturbi dell’apprendimento quali la dislessia, la disortografia, la discalculia. È però molto limitativo credere che solo la lettura e la scrittura coinvolgano tali processi. In realtà si potrebbe affermare che codifica e decodifica sono i processi-base dell’intero apprendimento scolastico. Ogni disciplina, infatti, comporta la necessità di saper decodificare e codificare dei simboli.[11]

Ma è la nostra vita sociale che mette continuamente alla prova questi due meccanismi, di cui provo a descrivere il funzionamento in condizioni tipiche

La velocità della lingua parlata, di cui ci accorgiamo quando tentiamo di cogliere qualche suono in una lingua che conosciamo a malapena, ci riporta alla funzione centrale del linguaggio: compiere azioni con altre persone attraverso le parole, tentare di affermare o negare opinioni, negoziare piani e intenzioni con un interlocutore. Tutto questo richiede un ritmo rapido, […] parole che velocemente si allineano con il pensiero. […] Con la lingua scritta gli uomini hanno però inventato un modo per fermare la velocità della lingua parlata. L’immobilità è servita come supporto al ricordo e alla memoria.[12][…]

L’apprendista lettore è già un esperto parlante della lingua ed è quindi già in possesso di un ricco lessico mentale nel quale ha immagazzinato numerose informazioni relative alle parole della lingua. Il lessico mentale (Laudanna e Burani, 1993) può essere inteso come un complesso magazzino nel quale sono accumulate le memorie che si riferiscono alle parole. Quando ascoltiamo o leggiamo una parola recuperiamo dal lessico mentale diversi tipi di conoscenza sulla parola. Ad esempio, sentendo e riconoscendo la parola gelataio, recuperiamo dal lessico mentale informazioni sulla sua forma fonologica (caratteristiche fonemiche, fonoarticolatorie e prosodiche), informazioni relative alla sua struttura morfologica quali la sua struttura di radice (gelat-) e di suffisso derivazionale (-aio), informazioni grammaticali e sintattiche e, ovviamente, informazioni semantiche che ci permettono di identificare il significato della parola come quello di «persona che prepara o vende i gelati».[13]

Ma l’elemento principale che la nostra memoria richiama, oltre all’immagine ortografica della parola, è un’immagine “concettuale” del gelataio, in forma di ricordo se già acquisita, associata all’immagine della parola che stiamo elaborando. Infatti

Man mano che il parlante diventa anche un lettore, e viene sempre più esposto alla forma scritta delle parole, alle informazioni già presenti nel lessico mentale si aggiungono anche informazioni sulla forma ortografica delle parole. Quando si legge una parola, quindi, il riconoscimento della parola nel lessico mentale permette l’accesso a tutte queste informazioni. […] il modello di lettura a due vie di Coltheart (Coltheart et al. 2001) […] ipotizza che quando ci troviamo di fronte una stringa di lettere da leggere ad alta voce, si attivino due processi paralleli, due vie di lettura, appunto. Una delle due vie è la cosiddetta via lessicale e presuppone l’esistenza di un lessico mentale nel quale sono già contenute un certo numero di memorie ortografiche. Nella via lessicale l’input ortografico viene elaborato da un sistema di analisi visiva che prende in considerazione sia la forma delle lettere, che la loro posizione relativa all’interno della parola, la stringa viene quindi confrontata come intero con le memorie ortografiche immagazzinate nel lessico mentale e, in caso di corrispondenza […] si accede velocemente e in modo diretto a tutte le informazioni che, per quella parola, sono immagazzinate nel lessico. Quindi anche al suo significato e alla sua forma fonologica. […] La via lessicale permette però di leggere solo parole precedentemente conosciute dal lettore e per le quali sia stata già creata una rappresentazione ortografica nel lessico mentale. Le parole mai viste o poco conosciute non possono, per definizione, essere lette per via lessicale perché non possiedono ancora una loro entrata ortografica distinta nel lessico. Il modello prevede quindi una via alternativa a quella diretta, denominata via fonologica o sublessicale. Questa modalità di accesso prevede una procedura di ricodifica fonologica: la forma scritta dell’input viene segmentata in unità minime, i grafemi,[14] ai quali vengono applicate le regole di conversione grafema-fonema della lingua, associando a ogni grafema il suono corrispondente e successivamente assemblando i suoni decodificati per arrivare alla pronuncia della parola. Questa procedura non prevede un accesso obbligatorio al lessico mentale e la parola può essere pronunciata ad alta voce anche senza recuperarne il significato. Il recupero del significato di una stringa (se esistente) può avvenire in un momento successivo […]. Si può pensare quindi che la via sublessicale debba essere più lenta di quella diretta. […] Quando si legge una stringa di lettere, le due vie di lettura partono insieme: l’elaborazione termina quando una delle due vie permette l’accesso lessicale e/o la pronuncia della parola.[15]

Ma qual è il processo di sviluppo che porta i bambini alla costruzione di un sistema di lettura completo nel quale sia possibile sia una lettura di tipo fonologico che una lettura di tipo lessicale?

Secondo il modello di sviluppo proposto da Frith[16] (1985), basato su osservazioni di bambini di lingua inglese,[17] l’acquisizione della lettura comincia con uno stadio «logografico» nel quale il bambino utilizza indizi visivi salienti per costruire un vocabolario visivo che gli permette di riconoscere in modo immediato, «a vista» appunto, parole molto familiari.

A questa prima fase, secondo Frith, ne segue una seconda, chiamata fase «alfabetica», che coincide con l’inizio dell’istruzione formale e con l’insegnamento esplicito dei principi alfabetici che regolano il sistema ortografico. In questa seconda fase il bambino impara a scomporre le parole in lettere e grafemi e ad assegnare ai singoli elementi il loro valore fonetico. Le parole quindi non appaiono più al bambino come forme ortografiche unitarie ma come insiemi di simboli linguistici e il bambino da veloce «riconoscitore» di scritte familiari, diventa un lento decodificatore di parole, familiari e non, utilizzando quella che nel modello a due vie della lettura descritto prima (Coltheart, Rastle, Perry, Langdon e Ziegler 2001) viene chiamata via fonologica.

Secondo il modello di Frith, un passo verso la ricodifica fonologica è determinato dall’apprendimento della scrittura […]. Nella terza fase si sviluppa una strategia «ortografica» attraverso l’uso della via lessicale. In questa fase i bambini riconoscono immediatamente le parole familiari, non più attraverso caratteristiche grafiche ma attingendo a dettagliate memorie lessicali. Le parole, a questo punto, sono «catalogate» nel lessico mentale in base a unità ortografiche più grandi della singola lettera/grafema, unità che vanno a coincidere con i morfemi. La pronuncia delle parole non viene più assemblata ma recuperata dalla memoria e il bambino non necessita più, per le parole familiari, di faticose ricodifiche fonologiche ma il processo di lettura acquisisce automatismo e immediatezza.[18]

Esistono ipotesi alternative, comunque attendibili. Una di queste è la self-teaching hypothesis,[19] anche se il modello più articolato resta quello della psichiatra tedesca, che torno a descrivere

Nel modello di Uta Frith (1985) lettura e scrittura hanno un andamento evolutivo non coincidente […] una fase successiva del processo di apprendimento della lingua scritta […] prevede invece che sia la lettura a trainare la scrittura: i bambini apprendono le regole e i pattern ortografici prima attraverso la lettura e, successivamente, applicano queste nuove conoscenze ortografiche anche alla scrittura. […]

Siegel, Share e Geva (1995) concordano sul fatto che

lettura e scrittura sono basate sulla conoscenza delle regole di conversione grafema-fonema e fonema-grafema (o anche di unità più ampie) e sulla «conoscenza ortografica», cioè l’acquisizione delle regole ortografiche del linguaggio e delle specifiche rappresentazioni ortografiche delle parole.[20]

Quindi nei casi di dislessia è necessario rendere quanto più possibile chiara la rappresentazione grafica delle parole. Infatti

Lettura e scrittura sono competenze complesse che coinvolgono abilità di base diverse, sia di carattere generale, sia di carattere più specifico, cioè legate all’elaborazione di particolari tipi d’informazione. Abilità dominio-specifiche sono per esempio quelle fonologiche, che utilizzano rappresentazioni di una specifica componente del linguaggio, oppure quelle visuospaziali che elaborano informazioni integrando forma visiva e direzione/posizione spaziale. Lettura e scrittura coinvolgono ovviamente ambedue questi tipi di abilità dominio-specifiche. Le lettere sono configurazioni il cui riconoscimento dipende da un’elaborazione visuospaziale e, contemporaneamente, l’apprendimento di queste configurazioni dipende da una memorizzazione sia visiva sia fonologica. Abilità più generali, e indipendenti dal particolare tipo di informazioni, sono quelle che permettono di dedicare attenzione consapevole a un compito, controllare informazioni o risposte che possono essere in conflitto fra loro, alternare l’attenzione fra tipi di informazioni diverse a cui applicare procedure o regole, mantenere in memoria una serie di informazioni visive o verbali il tempo necessario che permetta al sistema cognitivo un’elaborazione di queste stesse informazioni[21]

funzione, questa, propria della memoria di lavoro.

La memoria di lavoro

La memoria di lavoro può essere definita come la capacità di trattenere temporaneamente informazioni durante il corso di un’attività mentale e, per questo, è stata paragonata a una lavagna. Tale immagine, anche se suggestiva, rischia di essere fuorviante. In effetti la memoria di lavoro non è (soltanto) uno spazio mentale su cui vengono depositate informazioni provenienti dall’esterno oppure dalla memoria a lungo termine, ma include nel suo funzionamento anche una serie di processi che regolano le operazioni con cui le informazioni trattenute vengono elaborate.

La psicologia cognitiva ha proposto differenti modelli di memoria di lavoro, di cui il più accreditato in letteratura è il cosiddetto modello standard, un’architettura funzionale delineata da Baddeley ed Hitch (1974) per la prima volta a metà degli anni settanta e in seguito varie volte rivisitata (Baddeley, 2000, 2003, 2006). […]

memoria di lavoro

Nella prima versione del modello standard, la memoria di lavoro viene concepita come un sistema complesso in cui l’attività di due servosistemi (slave systems), il ciclo fonologico (phonological loop) e il taccuino visuo-spaziale (visual-spatial sketch pad), risulta coordinata e controllata da una componente sovraordinata: l’esecutivo centrale (central executive). I servosistemi sono specializzati nel trattare materiale rispettivamente di tipo verbale e di tipo visuo-spaziale, e, a loro volta, sono frazionabili in sotto-componenti con meccanismi funzionali specifici (Baddeley, Hitch 1974). Nel tentativo di rendere conto di alcuni fenomeni non interpretabili in base al modello tripartito, di recente è stato incorporato un quarto servosistema, il buffer episodico (episodic buffer) (Baddeley, 2000), specializzato per materiale di tipo multimodale. […] Il ciclo fonologico è costituito da due sottocomponenti: il magazzino fonologico e la ripetizione subvocalica o ripasso articolatorio. Il primo è una sorta di deposito che conserva informazioni di tipo verbale in quantità limitata e per un breve tempo (circa due secondi), dopo di che esse decadono. Il secondo è un processo che “rinfresca” le tracce (ripetendole sottovoce oppure mentalmente) impedendone la perdita, e facendole rientrare nel magazzino. Il materiale verbale uditivo accede direttamente al magazzino e, come si è detto, se interviene il ripasso può essere mantenuto più a lungo, mentre il materiale verbale scritto prima di arrivare al magazzino deve essere convertito nel codice fonologico dal ripasso articolatorio che dunque svolge anche questa importante funzione. […] Il taccuino visuo-spaziale è formato da due sottocomponenti: un magazzino (visual cache) che svolge la funzione più passiva di deposito di informazioni visive (forme, colori, tessiture e orientamenti di oggetti) ed un processo di ripetizione (inner scribe) in grado di ripassare l’informazione.[22]

Il buffer (magazzino) episodico, è una componente della memoria di lavoro che può spiegare l’influenza della memoria a lungo termine sulla memoria di lavoro.

In concreto, il buffer episodico attinge rappresentazioni dalla memoria a lungo termine[23] per organizzare le informazioni che riceve dagli altri servosistemi, le integra in una rappresentazione multimodale – in un “episodio” dotato di significato – e le mantiene temporaneamente (per un tempo più lungo rispetto a quello del ciclo fonologico o del taccuino visuo-spaziale) per permetterne la manipolazione attiva. L’esecutivo centrale svolge l’attività di supervisione, controllo e coordinazione delle informazioni che provengono dai servosistemi ed esercita, anzitutto, una funzione di controllo volontario dell’attenzione. […] In sintesi: la memoria di lavoro è un sistema multicomponenziale che mantiene accessibili durante le attività cognitive rappresentazioni derivanti sia da input esterni sia da informazioni recuperate dalla memoria a lungo termine. Ha capacità limitata e, per questo, risente del sovraccarico di informazioni e/o processi elaborativi da svolgere (load effect), oltre ad essere particolarmente sensibile ad interferenze di vario genere.[24]

 La memoria di lavoro nello sviluppo atipico

Le ricerche che, impiegando come riferimento il modello standard, hanno studiato i disturbi neuroevolutivi non hanno evidenziato un unico profilo, ma, a seconda del disturbo, hanno rilevato differenti punti di forza e di debolezza. Inoltre i deficit possono esser più o meno selettivi e interessare soltanto singole componenti o addirittura specifiche sotto-componenti e meccanismi funzionali della memoria di lavoro. […]

Una delle patologie dello sviluppo che ha suscitato maggiore interesse nei ricercatori è quella dei disturbi specifici del linguaggio (DSL). Il profilo tipico di bambini con DSL è caratterizzato da deficit selettivi del ciclo fonologico. Gathercole e Baddeley (1990) hanno ipotizzato che questo problema sia alla base del disturbo stesso e incida fortemente sull’apprendimento del vocabolario (Gathercole, 1998). Dai loro dati emerge che questi bambini, a 8 anni, mostrano in vari compiti linguistici prestazioni simili a quelle dei bambini di 6 anni.[25]

Studi condotti su gemelli hanno tuttavia dimostrato che i DSL e la dislessia siano in effetti disturbi evolutivi diversi che hanno in comune la causa: un deficit a carico della memoria di lavoro.[26]

Peraltro, la misurazione dell’abilità della memoria di lavoro è considerata unanimemente più “predittiva” delle abilità di lettura e in matematica di quanto la misurazione del quoziente d’intelligenza sia in grado di stabilire. Tuttavia, nonostante sia ancora difficile stabilire con certezza unanime cause fisiologiche e relativi effetti, vi è un interessante punto di convergenza su cui gli studiosi concordano a partire da Susan J. Pickering (2006) che «studiando i bambini con dislessia ha rilevato prestazioni basse in alcune misure del ciclo fonologico e dell’esecutivo centrale».[27]

Che funzioni dominio-generali come la memoria di lavoro siano essenziali per gli apprendimenti scolastici ce lo mostrano studi che confrontano bambini con QI nella norma o con QI sotto la norma accomunati tuttavia da deficit della memoria di lavoro. In questi casi si trova che siano compromessi la maggior parte degli apprendimenti scolastici (Maheler e Schuchardt 2009), indipendentemente dal QI. Molti studi (su questo punto, Orsolini 2011) trovano che deficit delle funzioni esecutive o della memoria di lavoro sono spesso alla base nell’apprendimento di lettura, scrittura, aritmetica e comprensione del testo in individui con QI nella norma.[28]

Altro punto di vista molto interessante è quello dello psicologo americano Keith Stanovich[29] per il quale l’insuccesso nell’apprendimento della corrispondenza tra grafemi e fonemi, necessario per imparare a leggere, è imputato principalmente al mancato sviluppo della consapevolezza fonologica.[30] Competenza quest’ultima che consente di elaborare il significato di una parola in relazione al suono corrispondente e, realizzandosi e affinandosi con la scolarizzazione, distingue i bambini in età prescolare. Indipendentemente da patologie, la consapevolezza fonologica si acquisisce più facilmente e rapidamente in lingue con ortografie trasparenti (come l’italiano) che in lingue con ortografie opache (come l’inglese).

L’attenzione

«L’attenzione è un insieme di risorse del sistema cognitivo umano che permette di concentrarsi su uno stimolo, a scapito di altri che appaiono simultaneamente al primo».[31] L’attenzione ha quindi carattere selettivo, blocca cioè l’elaborazione di tutte le informazioni irrilevanti e potenzialmente interferenti per il compito o per l’azione che si sta svolgendo (o preparando). L’attenzione ha risorse limitate: in altri termini, possiamo prestarla a poche cose alla volta. Si distingue in visiva o uditiva, a orientamento volontario (quella che applichiamo all’osservazione in dipendenza da uno scopo) o automatico (quando è innescata da uno stimolo interno o esterno), altrimenti definita rispettivamente esecutiva e volontaria da Lev Vygotskij.[32] Se viene applicata a uno spazio può concentrarsi sull’insieme, oppure focalizzarsi su una sua parte bloccando l’elaborazione di tutto ciò che cade al di fuori del suo focus. Suo atavico alleato è la motivazione e sua nemica insidiosa la noia, che può insorgere fisiologicamente (non siamo predisposti a mantenere l’attenzione a lungo perché il nostro cervello ricerca continuamente nuovi stimoli), oppure perché manca un adeguato apporto di ossigeno alle aree cerebrali preposte al suo funzionamento. Ma l’attenzione può flettere anche in dipendenza da fattori emotivi. Con la crescita l’attenzione affina le sue funzioni esecutive,[33]grazie alle quali diventiamo capaci di applicarla, concentrarla e mantenerla il più a lungo possibile.

Sull’attenzione si sono applicati gli studi “crosslinguistici”, quelli cioè che studiano le modalità di apprendimento di una lingua seconda[34] nel suo processo, e tutti i fattori d’interferenza recati dalla lingua materna. «Per Schmidt non c’è apprendimento senza attenzione: è grazie all’attenzione dell’apprendente verso ogni singolo fenomeno linguistico che si instaura il noticing, ossia la registrazione cognitiva di uno stimolo sensoriale e il suo immagazzinamento nella memoria di lavoro […] per la successiva elaborazione e quindi il suo apprendimento».[35] Per Pit Corder[36] «[…] non tutta la materia linguistica in L2 a cui l’apprendente è esposto, l’input, è da questi elaborata per esser successivamente interiorizzata, diventando intake e il processo di selezione che determina ciò che sarà promosso a intake è regolato dall’attenzione».[37] E l’intake è proprio ciò che il discente ha acquisito di un input, ovvero di uno stimolo culturale, sulla base del quale i docenti possono calibrare quello successivo. Questi processi, in cui l’attenzione ha un ruolo fondamentale, sono stati oggetto di osservazione empirica dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si è giunti a distinguervi due tipi di attenzione: una conscia (detection with awareness), l’altra inconscia (preconscious registration). Proprio la seconda può esser accertata con la tecnica del priming ovvero «l’effetto di facilitazione che uno stimolo visto/percepito precedentemente – anche inconsapevolmente – e connesso in qualche modo all’elemento target produce sulla performance di un apprendente.»[38] Ma questo è ormai argomento del capitolo che segue.

NOTE

[1] Lev Vygotskij è un importante psicologo russo vissuto tra XIX e XX secolo, l’eco della cui preziosa opera giunse in Italia solo a fine anni Sessanta dello scorso secolo.

[2] Prima della conoscenza dell’opera di Vygotskij se si riflette sull’impostazione che talvolta (specie in alcuni periodi storici) l’insegnamento ha avuto, ci si rende conto che esso era spesso informato (anche se non consapevolmente) soprattutto alla teoria stimolo-risposta di Skinner (1953): gli insegnanti proponevano attività e percorsi e poi andavano a constatarne i risultati. Ciò che accadeva nella mente degli alunni veniva non solo ignorato, ma addirittura, specie nei livelli scolastici superiori, considerato ininfluente, data la preminenza attribuita ai contenuti disciplinari. Reffieuna A. (2012) p. 105.

[3] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) p. 24.

[4] Antonella Reffieuna è un’esperta di psicologia dello sviluppo. Insegna presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino.

[5] Reffieuna A. (2012) pp. 106 – 107.

[6] Reffieuna A. (2012) pp. 107 – 110.

[7] I giudizi di accettabilità sono le principali tecniche di stampo generativo adottate per misurare le competenze. In questo tipo di test, l’apprendente è sottoposto alla lettura o all’ascolto di strutture linguistiche delle quali deve valutare l’accettabilità. Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 71.

[8] Per processing s’intende il processo cognitivo, compiuto quotidianamente da ognuno, attraverso il quale il flusso continuo di suoni cui siamo esposti viene elaborato nel preciso istante in cui lo stiamo percependo, affinché ne possiamo individuare, immediatamente e tendenzialmente senza consapevolezza, la o le unità – per es. foni/grafi, lemmi, sintagmi o altro – che lo costituiscono, per coglierne il significato; in altre parole, ogni volta che percepiamo e comprendiamo un input linguistico, lo processiamo, cioè segmentiamo, riconosciamo, e classifichiamo le singole parti che lo costituiscono […] in poche frazioni di secondo, efficacemente e in modo automatico. Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 219.

[9] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 71.

[10] Transcodifica è un termine di derivazione informatica che è descrittivo di entrambi questi processi.

[11] Reffieuna A. (2012) p. 303.

[12] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 229.

[13] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 230.

[14] I grafemi sono definiti come quelle stringhe ortografiche che corrispondono a un solo suono. In italiano i grafemi vengono solitamente a coincidere con le singole lettere, a parte casi come le stringhe GLI in figlio, o GN in gnomo, per esempio. In inglese la corrispondenza è assai più complessa. Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 231.

[15] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 230 – 232.

[16] Uta Frith è una psichiatra tedesca.

[17] In sede sperimentale si sceglie la lingua inglese perché, rispetto all’italiano, presenta maggiori difficoltà di elaborazione fonetica.

[18] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 233- 234.

[19] Un’ipotesi alternativa al riguardo è quella avanzata da Share (1995) e denominata ipotesi dell’autoistruzione (self-teaching hypothesis): ogni decodifica corretta di una parola non familiare fornisce al lettore l’opportunità di acquisire e memorizzare informazioni ortografiche, specifiche per quella parola. In altri termini, dopo aver letto fonologicamente per un certo numero di volte una data stringa, essa comincia a essere memorizzata nel lessico ortografico (Cunningham et al., 2002). Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) p. 44.

Anche la scrittura ha probabilmente un ruolo importante nella costruzione della lettura lessicale. Shahar-Yames e Share (2008) ipotizzano, seguendo la teoria di Share, che anche la scrittura svolga una funzione di autoistruzione per l’acquisizione delle rappresentazioni ortografiche delle parole poiché richiede di riprodurre dalla memoria la stringa di lettere completa. La scrittura è risultata, nel lavoro degli autori, anche più efficace della lettura come meccanismo di self-teaching, in quanto costringe all’elaborazione di ogni singola lettera. Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 236 – 237.

[20] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 240.

[21] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 242 – 243.

[22] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) pp. 163 – 165.

[23] La memoria a lungo termine è rappresentata nel grafico dall’acronimo MLT.

[24] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) pp. 166 – 167.

[25] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) p. 170.

[26] Orsolini M, Fanari R., Maronato C. (2005) p. 59.

[27] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) p. 171.

[28] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 243.

[29] Keith Stanovich è un eminente studioso statunitense della dislessia evolutiva.

[30] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 246.

[31] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) pp. 234 – 235.

[32] Per un quadro può esaustivo sulle varie definizioni di attenzione si confronti Orsolini M. (2011) pp. 131 – 145.

[33] Le funzioni esecutive sono quei processi cognitivi che permettono all’essere umano di mantenere un appropriato orientamento per il raggiungimento di uno scopo […] interagiscono con le elaborazioni che avvengono in specifici domini (ad es.: linguaggio, aritmetica) e con i processi che coinvolgono altre funzioni cognitive (percezione, memoria, ragionamento). Orsolini M. (2011) p. 185.

[34] Si definisce lingua seconda, o L2, una lingua diversa dalla materna, inizialmente straniera, appresa prevalentemente in contesti extrascolastici.

[35] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 235.

[36] Stephen Pit Corder è un linguista vissuto nel XX secolo nel Regno Unito. È uno dei più autorevoli teorici dei fenomeni “crosslinguistici”.

[37] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 235.

[38] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 241.

La funzione dell’immagine nella didattica per L2

Quando apprendiamo una prima lingua, quella definita materna,

a un certo punto i bambini cominciano a leggere le parole fluidamente, come se le riconoscessero immediatamente. Questa fluidità può essere indizio di una lettura in cui prevale l’elaborazione “lessicale”: la pronuncia della parola scritta non passa attraverso un assemblaggio fonetico ma utilizza il recupero di forme ortografiche e fonologiche dal lessico mentale. Com’è possibile osservare se un bambino utilizza una lettura lessicale? La risposta può essere relativamente semplice per i lettori anglofoni. Parole a ortografia irregolare come bear (orso), have (hai), pint (pinta), possono essere pronunciate correttamente solo se si utilizza una lettura lessicale.[1]

Un processo completamente diverso s’instaura invece quando si deve apprendere la fonologia e la morfologia (per non parlare di grammatica e sintassi) di una lingua seconda poiché la lingua materna interferisce, in maniera evidente, con la seconda, dando inevitabilmente origine a una variegata gamma di nuove forme che un insegnante deve ormai essere in grado di ricondurre a un’origine, più che a considerarle un errore da sottolineare. Comunque da correggere, semplicemente proponendo, o riproponendo, la forma corretta.

Una nuova considerazione dell’errore è il punto di approdo degli studi che, dalla seconda metà del secolo scorso, hanno animato buona parte dei linguisti: gli studi sull’influenza “crosslinguistica”, identificata essenzialmente nei fenomeni di transfer (o interferenza) e i suoi effetti che trovano espressione in un semi-linguaggio.[2] Sui quali, purtroppo, non basta l’utilizzo funzionale di un’immagine a risolvere le distorsioni che ne derivano (a partire dall’accelerare, rallentare o modificare i percorsi di acquisizione),[3] pur avendo questa un ruolo ausiliare, e basilare nel processo di associazione di una parola all’immagine dell’oggetto cui si riferisce, quindi al concetto corrispondente, quasi come accade nella lingua materna.

Nell’insegnamento di una lingua seconda è necessario, prima di tutto, preporre alla spiegazione di regole grammaticali e sintattiche l’acquisizione di quella consapevolezza fonologica[4] che permetterebbe, anche ai bambini in età prescolare, di «utilizzare il suono delle parole in maniera inconsapevole, automatica, come mezzo per arrivare al significato. In effetti è con la scrittura (e con l’esperienza di una seconda lingua) che il suono delle parole diventa qualcosa cui pensare consapevolmente, qualcosa che si può analizzare e scomporre».[5] Sta di fatto che «alla fine della seconda elementare nei bambini italiani prevale una lettura lessicale».[6]

Ma non dimentichiamo che la lingua seconda si apprende per lo più in contesti extrascolastici, e che il discente in L2, nella migliore delle ipotesi, impiega più tempo a sviluppare una “seconda” lettura lessicale (ammesso che possa definirsi tale). Tanto vale che lo si impegni sull’acquisizione della consapevolezza fonologica, o comunque sulla competenza comunicativa,[7] prioritaria nell’impiego dell’L2 nella vita reale.

Proprio a questo scopo si modellano i materiali che la Loescher, leader fra le case editrici specializzate in didattica per stranieri, propone ad accesso libero (quindi gratuitamente) sul proprio sito web, aprendo la sezione dedicata all’IT2 con una dichiarazione programmatica assolutamente condivisibile:

Questa nuova rubrica è un valido strumento di supporto allo studio dell’italiano per stranieri e prevede la pubblicazione mensile di tre schede (grammaticale, di esercizi e lessicale) con progressione di livello, dall’A1 al B2. Gli argomenti verranno presentati e spiegati in modo “visivo”, perché crediamo che un’immagine valga più di mille parole![8]

E confida effettivamente nell’efficacia dell’immagine impiegandola sistematicamente per contestualizzare esercizi che si riferiscono sempre ad esigenze e situazioni di vita reale.

L’impiego di grammatiche per madrelingua è infatti assolutamente sconsigliato nella didattica L2. Sono stati realizzati tuttavia in passato testi di sintesi grammaticale per stranieri modellati sui pocket English,[9]trascurando che l’italiano non può modellarsi su una lingua con un apparato morfologico prevalentemente più breve del nostro, e con una grammatica e sintassi quasi paratattiche. Oppure i testi creati per apprendere la lingua seconda sono veri e propri corsi multimediali, come Percorso Italia: due volumi (A1/A2 e B1/B2 conformemente al quadro comune europeo),[10]commissionati a Giuseppe Patota e Norma Romanelli nel 2008 dalla Società Dante Alighieri, l’ente che tutela e diffonde la lingua e la cultura italiana nel mondo dal 1889. Lingua e cultura di fatto si alternano in un’opera in cui le immagini hanno qualche volta funzione ludica, spesso divulgativa. Numerose le fotografie a confermare l’attualità dei contesti d’esercizio proposti (anche se l’attualità, paradossalmente, è il primo fattore soggetto a obsolescenza se il testo non viene continuamente aggiornato). L’opera è tuttavia destinata a un discente adulto (o quasi), e il linguaggio utilizzato potrebbe rivelarsi talvolta di difficile comprensione. [11]

Al confronto, la Grammatica semplificata per stranieri, testo di tipo pedagogico (cioè a doppia impostazione) realizzato nel 2007 da Enrica Arrighi per Loescher,[12] vince. Due sono comunque i suoi volumi, ma solo uno è per chi deve apprendere l’italiano L2 a partire dall’alfabeto. L’altro è una guida per l’insegnante, corredato in apertura della legislazione varata a tutela dei minori stranieri e di un’interessantissima sezione sulle caratteristiche dei principali idiomi che si son venuti a diffondere in Italia a seguito di vari flussi migratori: il cinese, l’arabo e il russo (lingua, questa, parlata anche nei paesi dell’ex Unione Sovietica, come l’Ucraina). Può essere molto utile a chi insegna italiano, ad esempio, sapere che l’articolo in cinese non esiste. Il nostro potrebbe dunque rivelarsi una delle principali difficoltà per discenti di madrelingua cinese. Lo si evidenzia perché essere tutor in L2 attualmente comporta anche il saper riconoscere una contaminazione (perché di fatto il transfer è tale) e ricondurla alla causa; per poi renderla possibilmente fonte d’ispirazione didattica.

Tutta quest’opera si basa su materiale scritto e sperimentato in classe con studenti stranieri, ed è ricca di esercizi graduati. Le immagini, poche ed essenziali, hanno forma di fumetto e mera funzione ludica. E tutto il testo ruota su una piacevole alternanza grafica dei colori nero e arancione; la sua semplicità lo rende certamente utile. Ma la cosa più efficace è che si tratta di un testo funzionale al cooperative learning, la tecnica didattica che consiglia di inserire il giovane migrante in piccoli gruppi per assegnargli un proprio ruolo attivo nel processo di integrazione intellettuale. E che favorisce un approccio di applicazione multimetodologico.[13]

Graficamente austera è la guida per l’insegnante. E se quasi tutti i testi L2 ormai includono sezioni dedicate alla descrizione della nostra cultura, questa “guida” si apre con un ampio scorcio sulle “altre” culture del nostro mondo, prima di chiudersi con un prontuario sulle verifiche – e relative soluzioni – che scorre parallelo al testo base.

Come rivela la quarta di copertina, quest’opera faceva probabilmente parte di un progetto più ampio, comprensivo di volumi di approfondimento su fonologia e morfologia, sintassi della proposizione e del periodo, lingua e comunicazione, e un volume dedicato alle esercitazioni per il recupero e l’eccellenza. Peccato che poi non sia stata sviluppata.

Completo, e comunque accattivante nel linguaggio e nella veste grafica, è invece Nuovo contatto. Corso di lingua e civiltà italiana per stranieri, disponibile anche in versione digitale, scritto da Rossella Bozzone Costa, Chiara Ghezzi e Monica Piantoni, articolato in ben cinque livelli di difficoltà (da A1 a C1, con un volume di esercizi per ciascun livello e con una guida elettronica per l’insegnante per i livelli A1 e A2, e cartacea per C1). Si tratta di un corso multimediale integrato ai materiali ad accesso libero dell’IT2 di Loescher, che riduce al minimo le informazioni stampate, pur “colorandone” la veste grafica, e animandola con un’ampia gamma d’immagini (una mappa fisico-politica d’Italia in apertura di ogni suo volume. E poi disegni, fumetti, simboli e immagini fotografiche) per evidenziare l’attualità del testo (ma sull’attualità del testo vale quanto già scritto, cioè che l’attualità è il primo elemento a diventare in breve tempo inattuale). Completamente diverso dal punto di vista grafico è il suo eserciziario: le immagini – in bianco e nero in un testo essenzialmente grigio – hanno la mera funzione di contestualizzare gli esercizi (più tecnici rispetto a quelli del testo base) cui è dedicato questo volume, nel quale – una curiosità sulla cultura italiana moderna, quasi sempre descritta nei testi L2 – si parla anche del “rito” dell’aperitivo.[14]

Per concludere, sempre pubblicati da Loescher per la didattica L2, sono disponibili in libreria:

– Spazio Italia, il corso di italiano per stranieri di Mimma Flavia Diaco e Maria Gloria Tommasini, finalizzato all’acquisizione della competenza comunicativa di livello A1, A2 e B1;

– Spazio civiltà di Cinzia e Filippo Medaglia,  per i livelli A2 e B1. Si tratta di un corso sulla cultura italiana, organizzato su cinque aree tematiche, che presuppone una conoscenza di base dell’italiano;

– Al lavoro! di Daniela Pepe e Giovanni Garelli. Un corso essenziale con particolare riferimento all’attività lavorativa e ai suoi problemi, di livello A1 e A2;

– Azione! di Elisa Turra, per imparare l’italiano con i video (A1 e A2 sono livelli compresi nello stesso volume);

– Detto e scritto, il corso di prima alfabetizzazione di Alessandro Borri e Fernanda Minuz;

– Caccia ai tesori, un corso di lingua e civiltà, di Antonella Filippone e Sandra Radicchi, di livello B1-C1.

NOTE

[1] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) pp. 40 – 41.

[2] Il semi-linguaggio è tanto più a rischio di formazione nell’età scolare. Se infatti il contatto con una lingua si interrompe tra gli 8 e i 12 – 13 anni, essa può portare a situazioni di semilinguismo (gli alunni non sono competenti né il L1 né in L2), mentre l’arrivo dopo i 12 anni permette agli alunni stranieri di approfondire nella patria d’origine e nella loro L1 le abilità complesse, quali il sintetizzare, il ricercare informazioni, lo studiare discipline diverse, il riflettere sulla lingua. Arrighi E. (2007) II, p. 12.

[3] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 145.

[4] Di consapevolezza fonologica si è già trattato nel capitolo precedente.

[5] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 244.

[6] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) p. 47.

[7] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 74.

[8] http://italianoperstranieri.loescher.it .

[9] Come nel caso di AAVV., Italiano per stranieri (2008 – 2014) che si rivolge a un lettore anglofono (l’interfaccia è in inglese) e attribuisce al verbo italiano una progressive form per trattare il gerundio. Si sofferma tuttavia sulla differenza tra imperfetto e passato prossimo dedicando addirittura un paragrafo rispettivamente a trapassato prossimo, periodo ipotetico, forma passiva. Numerosi sono gli esercizi.

[10] Per i dettagli si consulti Rizzardi M. C., Barsi M. (2005) pp. 620 – 621. Comunque il testo è facilmente reperibile nel WEB.

[11] Percorso Italia è stato ripubblicato da Garzanti nel 2011. L’analisi di cui sopra si basa sull’edizione del 2008 a cura di De Agostini Scuola.

[12] Arrighi E. (2007).

[13]metodo autobiografico (cioè insegnare la L2 partendo da temi legati alla vita e alla quotidianità dei migranti: la famiglia, il viaggio, la scuola, i negozi) con l’approccio comunicativo (cioè mettendo i migranti in situazioni comunicative autentiche in cui devono chiedere, eseguire i comandi, individuare contesti), l’approccio tradizionale con spiegazioni più formali, dando importanza alle forme e cioè al saper scrivere in bella grafia, al conoscere, al riconoscere e applicare le regole grammaticali), con alcuni aspetti della suggestopedia (ad esempio la presenza di un ambiente piacevole e rilassato, un clima di curiosità e apertura, un insegnante motivato e dinamico, e perché no, anche qualche brano musicale). Arrighi E. (2007) II, p. 19.

[14] L’analisi si riferisce all’edizione del 2014 di Nuovo Contatto A1.

La funzione dell’immagine nella didattica per la dislessia

Se l’immagine è un elemento di funzione basilare nei processi di codifica e decodifica di uno stimolo linguistico, tanto più lo è per i discenti dislessici, quelli cioè con comprovate difficoltà di lettura.

La diagnosi di dislessia o di difficoltà specifica nell’apprendimento della lingua scritta (queste due etichette si possono considerare intercambiabili) si fa per esclusione. Si applica a tutti i soggetti che hanno una prestazione di lettura molto più bassa della media […] che non hanno un ritardo cognitivo, un disturbo emotivo, danni neurologici accertati, generali difficoltà di apprendimento. […] Per molti bambini la difficoltà di lettura si accompagna a problemi nella scrittura; in alcuni casi è più disturbata la scrittura della lettura, sia per gli aspetti grafici sia per quelli ortografici. In molti casi ci sono anche problemi nel calcolo “a mente”, ma non nella capacità di risolvere problemi matematici.[1] […]

I “sintomi” di una difficoltà nella lettura possono variare in relazione all’età, ai fattori sottostanti che hanno contribuito a rallentare lo sviluppo della lettura, agli stili individuali di apprendimento, alle conoscenze linguistiche e alle strategie cognitive che vengono utilizzate dal bambino per compensare le proprie difficoltà. Nei dislessici che hanno appreso un sistema ortografico regolare, come l’italiano e il tedesco, la lentezza di lettura sembra una caratteristica pervasiva del disturbo. A questa lentezza corrisponde un uso piuttosto particolare dei movimenti oculari (Zoccolotti et al., 2002). Un bambino con uno sviluppo tipico della lettura tende a fissare lo sguardo sulle parole contenuto (ad es. partita, squadra) e a non fissare parole-funzione (ad es. di, e, per) le cui caratteristiche grafiche vengono evidentemente colte da una visione periferica. Molte parole vengono fissate una sola volta, mentre qualche altro termine riceve due punti di fissazione. I movimenti saccadici (cioè gli impercettibili e continui movimenti oculari) sono più brevi o più ampi a seconda della lunghezza della stringa successiva. Al contrario, nella lettura di un bambino dislessico, i movimenti saccadici sono molto numerosi e quasi sempre poco ampi; la maggior parte delle parole riceve più punti di fissazione; più la parola è lunga e più punti di fissazione riceve […]. Che cosa rivela la diversità di movimenti oculari in un processo di lettura tipico o in un processo “dislessico”? Riutilizzando il “modello a due vie”[2] […], possiamo spiegare la numerosità delle fissazioni e la loro scarsa ampiezza con la necessità di prestare attenzione a singole parti della stringa. Questo potrebbe suggerire che nei dislessici vi è uno scarso uso di lettura lessicale e una maggiore dipendenza da un’elaborazione sequenziale delle lettere, come quella che avviene nella lettura fonologica. Di conseguenza c’è una forte dipendenza del tempo di lettura dalla lunghezza della parola. Persino nel passaggio da stringhe di 3 a stringhe di 4 lettere il tempo di lettura di alcuni dislessici si allunga notevolmente (Spinelli et al., 2005).[3]

[…] La lettura dei dislessici si differenzia da quella dei bambini che sviluppano la lettura in modo tipico per svariate caratteristiche: a) una minore correttezza, evidente in un minor numero di grafemi decifrati correttamente; b) una minore efficienza del riconoscimento lessicale (minor numero di parole riconosciute); c) la permanenza, soprattutto nei bambini di seconda e terza elementare, di una lettura fonologica “intermedia” (centrata sulla decifrazione ad alta voce di parti della stringa); d) l’uso di una lettura lessicale per una percentuale di parole molto bassa. […] Si notano anche errori dovuti a un’anticipazione lessicale (ad es. GALERA letto [gallina]) non ben coordinata con il riconoscimento delle lettere. Infine, si notano molto occasionalmente anche errori di inversione (ad es. CRATERE letto [karte]). La presenza di questi errori e la lunga permanenza di una decifrazione ad alta voce suggeriscono che nei bambini dislessici la lettura fonologica ha avuto uno sviluppo atipico, caratterizzato da una difficoltà di riconoscimento delle lettere e da un lento passaggio dalla lettura fonologica “intermedia” alla lettura fonologica “avanzata”.[4]

[…] Quali ragioni possono spiegare questo sviluppo atipico della lettura? Una spiegazione fonologica ipotizza che i dislessici abbiano un disturbo della rappresentazione e/o memorizzazione e/o recupero dei suoni delle parole (Snowling, 2000). Un deficit fonologico[5]ostacolerebbe un efficiente, solido apprendimento di corrispondenze grafema-fonema. A causa di questo deficit le fondamenta della lettura fonologica sarebbero particolarmente carenti, con conseguenze negative per tutto il successivo sviluppo della lettura.

Nella sterminata letteratura sulla dislessia è da molti anni sostenuta una teoria neurofisiologica che ipotizza un deficit della via visiva magnocellulare, o transiente, che ha origine da alcune cellule della retina (le cellule M o Alfa) preposte all’analisi globale degli oggetti e del loro movimento. Con questo deficit si creerebbe un effetto di mascheramento visivo che ostacola l’efficienza del riconoscimento delle lettere. […] Altre teorie visive, come quella del crowding (“affollamento”) visivo, cercano di spiegare un dato comportamentale che caratterizza almeno un sottogruppo di dislessici: la particolare lentezza nel riconoscere intere sequenze costituite da lettere e da simboli visivi non ortografici (Spinelli et al., 2002).

Infine c’è una teoria che ipotizza il disfunzionamento del cervelletto da cui deriverebbe una difficoltà nel controllo motorio e nell’automatizzazione sia di routine articolatorie, sia di apprendimento di lettura e scrittura (Nicholson, Fawcett, 1995).[6]

Esistono naturalmente dei test specifici che misurano empiricamente i deficit di cui la dislessia (e la conseguente o coesistente disortografia) fa parte. Ne descrivo uno in particolare, il Rapid Automatized Naming, altrimenti noto come RAN o denominazione rapida automatizzata, perché aiuta a comprendere meglio i meccanismi finora descritti. Il RAN consiste nel chiedere

al bambino di denominare, il più velocemente possibile, matrici di stimoli, quali colori, oggetti o numeri, procedendo da sinistra a destra e dall’alto in basso (la stessa procedura di scansione implicata nella lettura di un testo). La matrice di stimoli è in genere formata da quattro-cinque elementi molto familiari che si ripetono in ordine casuale. Il punteggio è costituito dal tempo impiegato dal bambino per denominare tutti gli stimoli, cercando di non commettere errori. Questo tipo di compito è stato ideato da Denckla e Rudel (1976), i quali hanno riscontrato un deficit nella velocità di esecuzione della prova in bambini con dislessia evolutiva, risultato poi confermato in ricerche successive. […] Gli Autori hanno paragonato la denominazione rapida al processo di lettura. Nella lettura lessicale riconosciamo lettere e attraverso questo riconoscimento abbiamo accesso a una memoria nel lessico ortografico (la parola scritta), a una forma fonologica (il suono della parola) e a un contesto semantico; se stiamo leggendo a voce alta, il processo di pronunciare la parola avviene mentre lo sguardo sta già cogliendo le caratteristiche visive delle lettere nella stringa successiva. Queste operazioni si ripetono più volte, e in maniera molto rapida: tra il vedere una stringa e l’iniziare a pronunciare una parola passa per un lettore esperto una frazione di poche centinaia di millisecondi.[7] Consideriamo ora un compito di denominazione rapida di disegni di oggetti (ma lo stesso vale per la denominazione di colori o numeri): riconosciamo l’oggetto, ne recuperiamo l’etichetta fonologica corrispondente e la pronunciamo mentre lo sguardo si sta già spostando verso l’oggetto successivo. Come nella lettura, il ripetersi veloce di queste operazioni richiede una rapida integrazione e sincronia tra spostamento dell’attenzione, riconoscimento visivo e recupero di forme fonologiche (le etichette fonologiche dei simboli). Una lentezza in uno di questi processi, o una difficoltà a sincronizzare queste operazioni, può rallentare il tutto in un effetto a catena. La lentezza in compiti di RAN può essere la manifestazione di una generale lentezza di elaborazione, che non riguardi quindi solo la lettura.[8]

Un’importante conclusione sembra tuttavia mettere tutti d’accordo: la lettura rapida di cifre dipende dalla velocità di lettura lessicale; l’elaborazione del suono delle lettere è legata all’abilità di lettura fonologica.[9] Restano tuttavia delle lacune poiché «il ruolo delle abilità visuospaziali nell’apprendimento della lingua scritta ha ricevuto minore attenzione rispetto al ruolo delle abilità fonologiche. Il linguaggio scritto, tuttavia, implica in primo luogo la vista come modalità percettiva e come canale sensoriale.»[10]

In effetti l’apprendimento di una lingua dipende per buona parte, e prima di tutto, dal funzionamento della vista. Come spiega Patrizia Gaudiano,[11]in Lettura e comprensione per immagini pubblicato recentemente da Erickson

la funzione percettiva è la modalità primaria della conoscenza: un processo di elaborazione degli stimoli sensoriali che prevede l’analisi, la selezione e l’elaborazione delle informazioni visive. […] attraverso il canale visivo il bambino finalizza l’esplorazione alla comunicazione e all’apprendimento. […] Molti bambini, anche con un quoziente intellettivo nella norma, possono mostrare problemi di apprendimento evidenziando carenze nell’elaborazione visiva, in quanto uno o più aspetti della percezione sono deficitari. La percezione visiva è un processo cognitivo risultante dall’integrazione tra input sensoriali visivi ed esperienze dell’individuo. Tali abilità forniscono uno stimolo e producono un’impressione consapevole del mondo esterno.[12]

E con le seguenti parole Patrizia Gaudiano descrive i processi elaborativi di base di discenti dislessici, per i quali è ricorsa all’utilizzo mirato di immagini. Cioè in tutti quei nei casi in cui

il testo scritto pervaso di nozioni, narrazioni e descrizioni rappresenta un ostacolo insormontabile alla motivazione e al raggiungimento di obiettivi didattici. […]

Il tema dell’utilizzo didattico delle immagini non è certo nuovo alla pedagogia contemporanea, in quanto da diversi autori è stato definito come uno strumento prezioso per chi si occupa di apprendimento e educazione. Alle immagini viene assegnato il ruolo tradizionale di illustrare, e quindi illuminare, il discorso e di aprire così la via verso una certa multi-modalità. Un’altra dimensione dell’immagine è quella dello schema che semplifica per meglio evidenziare un aspetto o una rappresentazione. In ultima istanza l’immagine può anche iscriversi in un approccio spaziale e dinamico: una qualsiasi figura geometrica è meglio compresa quando è costruita davanti all’alunno, perché i concetti e i luoghi geometrici sono più accessibili se sperimentati direttamente.

Comprendere un testo scritto non è solo una decodifica di parole e frasi, poiché implica la capacità di costruire una rappresentazione mentale di quanto letto: se accanto alle parole ci sono immagini, oltre che comprendere si ricorderà anche con maggiore facilità. […]

Le immagini possiedono un duplice valore: motivazionale[13] e informativo. Stabiliscono il contesto e il setting della storia, collocandola nel tempo e nello spazio. Descrivono talora i personaggi, mostrando le loro azioni e, in certe circostanze, i loro sentimenti.[14] Per questa ragione l’immagine facilita i processi di apprendimento aiutando la creazione di rappresentazioni mentali coerenti e supportando l’attenzione sul compito e la memoria di lavoro.[15]

Di sicuro interesse al riguardo è anche il punto di vista di Rossella Grenci [16], docente di logopedia – la disciplina che studia il malfunzionamento e le malattie degli organi del linguaggio e la correzione dei loro effetti – che così sottolinea lo stretto rapporto inconscio che i dislessici hanno con l’immagine: «Molti dislessici possono manipolare le immagini nella loro mente […] vedono le lettere come disegni non riescono a leggere il simbolo».[17][Gatto] è per i dislessici l’immagine che hanno memorizzato del gatto, e così via per tutti i termini descrittivi. Le parole sono immagini nella loro mente. I problemi infatti sorgono quando a un articolo, una preposizione, a una congiunzione l’unica immagine associabile è quella dello stesso termine. E per Rossella Grenci i dislessici sono in grado di processare le immagini mentali con modalità e velocità inconsueta (anche se questa dote è – a mio parere –  tipica dell’autismo). Per questo motivo le mappe concettuali rappresentano, in questi casi, i supporti didattici più efficaci. E, proprio in virtù di questa efficacia, al loro impiego si ricorre ormai, sempre più frequentemente, anche nella didattica tradizionale.

Probabilmente perché ogni soggetto costituisce un caso a sé, e richiede un intervento individualizzato, non esistono ancora grammatiche scritte per dislessici (è decisamente più ricco il catalogo editoriale dedicato a chi rivela problemi di discalculìa). Al massimo esistono mappe concettuali a tema grammaticale, alcune delle quali sono disponibili sul sito www.aiutodislessia.net . Si tratta di schede in cui la grammatica italiana è schematizzata ed evidenziata, talvolta, in ben cinque colori diversi. Tuttavia, nell’intento di descrivere la nostra grammatica nella sua completezza, si è realizzato un prodotto che potrebbe provocare un fenomeno da non sottovalutare: il crowding.

l'aggettivo per aiutodislessiaTroppe informazioni sulla stessa pagina determinano inevitabili problemi di lettura, quindi di apprendimento. Meglio sarebbe – a mio parere – “segmentare” l’informazione e aiutarne l’acquisizione grazie a una rappresentazione grafica di facile lettura per chi ha problemi di decodifica, rafforzata dalla riproduzione sonora di quanto “visualizzato”, in funzione di una migliore comprensione e memorizzazione delle nozioni. Proprio come rappresentato nelle immagini che seguono, tratte da un progetto di una grammatica audiovisiva – e come tale fruibile su tablet e personal computer (su uno smartphone il font utilizzato potrebbe risultare troppo piccolo, invalidando l’impostazione del progetto) – che ho pensato utile per tutte le persone con gravi e comprovate difficoltà di lettura come i dislessici.

articolo determinativo

esempi agg.

 

l'aggettivo

 

aggettivi qualificativi

Questo, che di fatto è un testo audiovisivo, si basa su un format inedito di scrittura (o riscrittura) di testi didattici, e consiste in una sequenza logica, di difficoltà progressiva, di slide realizzate sul modello di mappe concettuali basate su:

– la semplificazione dell’informazione;

– l’utilizzo di caratteri grafici di facile lettura per i dislessici (come  l’arial 14, se non addirittura l’opendyslexic) in virtù della loro dimensione, forma e colore (con possibilità d’ingrandimento);

– il focus della nozione evidenziato in rosso, in posizione perlopiù centrale;

– la riproduzione sonora di quanto descritto (senza limiti di ripetizione).

Vista e udito “concorrono” quindi alla decodifica dell’informazione, favorendo la memorizzazione visiva della nozione.

Per trattare invece di quanto è già disponibile in libreria, Erickson propone alcuni prodotti per l’insegnamento delle regole grammaticali che sono per lo più interessanti per la loro versatilità informatica; ciò perché per un dislessico il tablet può diventare un buon alleato. Fra questi segnalo:

– Recupero in ortografia family/professional di Luciana Ferraboschi e Nadia Meini, app per smarthone e tablet, ma disponibile anche in stampa;

– Decodifica sintattica della frase di Elena Freccero, disponibile anche in download;

– Astuccio delle regole di italiano di Nicoletta Farmeschi e Anna Rita Vizzari.

E concludo ricordando, fra le migliori iniziative ad uso di soggetti dislessici, #disleggo, il portale di http://www.larepubblica.it, inaugurato in occasione della terza edizione della settimana nazionale della dislessia, che si è svolta dall’ 1 al 7 ottobre 2018, per sensibilizzare e informare sul tema.

 NOTE

 [1] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) pp. 49 – 50.

[2] Il modello a due è stato già descritto nel capitolo sull’apprendimento.

[3] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) pp. 50 – 52.

[4] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) pp. 52 – 53.

[5] Altrimenti definito tecnicamente phonological core deficit. Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) p. 64.

[6] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) pp. 53 – 55.

[7] Ciò è verificabile solo grazie alla misurazione dei movimenti oculari, o eye tracking, di cui ho già trattato a proposito della psicolinguistica (movimenti saccadici).

[8] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 247 – 249.

[9] Uno studio recente (Wile, Borowsky, 2004) ha trovato che il compito di denominazione rapida di cifre correla soprattutto con la velocità di lettura lessicale; il compito di denominazione rapida del suono delle lettere correla invece con la velocità della lettura fonologica, misurata attraverso la lettura di non-parole (ad es. BEPRE).  Orsolini M., Fanari M., Maronato C. (2005) p. 63.

[10] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 250.

[11] Patrizia Gaudiano è una psicopedagoga con ampie competenze tecnico-pratiche sulla didattica destinata a soggetti con bisogni educativi speciali.

[12] Per un approfondimento su quelle che Patrizia Gaudiano definisce abilità “visuo-percettive” , di grande importanza nello studio della dislessia, si invita alla consultazione del testo. Gaudiano P., Rebuttini B. (2018) pp. 10 – 11.

[13] L’attrazione motivazionale di una semplice immagine è quello che può fare la differenza tra sfogliare un libro, oppure no. Gaudiano P, Rebuttini B. (2018) p. 9.

[14] Questo è per esempio il miglior modo per rappresentare dei sentimenti a soggetti autistici o con sindrome di Asperger.

[15] Gaudiano P, Rebuttini B. (2018) p. 10.

[16] Rossella Grenci è docente di logopedia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

[17] Grenci R. (2004) pp. 44 – 45.

Il programma di arricchimento strumentale di Reuven Feuerstein

Devo a una diciassettenne affetta da sindrome di Rett,[1] incontrata in un liceo romano, l’idea di questo mio scritto poiché mi ha posto di fronte a una realtà che ignoravo: la necessità di comunicare esclusivamente grazie all’impiego di immagini.

Quando ho conosciuto Chiara, in un momento di sua forte progressione patologica, articolava a malapena due parole, e solo su input materno. Altrimenti comunicava – talvolta con lunghi tempi di attesa di una sua risposta – per mezzo d’immagini di circa dieci centimetri quadrati (lo specifico perché dimensioni, caratteristiche e posizione delle immagini simboliche hanno in questo caso la massima importanza) stampate su carta plastificata, poste possibilmente in posizione frontale su un leggio. E questo accadeva solo quando l’effetto dei farmaci anti-epilettici ne consentiva la lettura.  Ciononostante Chiara interagiva con ciò che la circondava. Per questo era molto importante che la si trattenesse quanto più a lungo possibile in aula perché ricevesse il massimo degli stimoli sensoriali. E la presenza in classe non era “terapeutica” solo per lei, ma anche per i suoi compagni, che versavano in un’evidente difficoltà d’interazione. Dei ventidue studenti di una classe di liceo scientifico – di cui quindici maschi – quei pochi che le si rivolgevano vivevano la frustrazione del non esser riconosciuti, della sua indifferenza. Se Chiara non consentiva di coinvolgere i suoi “pari”, rappresentava tuttavia una buona occasione per sensibilizzarli se non all’esercizio dell’empatia – poiché è forse incauto chiedere sia pur implicitamente a un adolescente di essere partecipe di un disagio tanto grave – almeno alla conoscenza e al rispetto per la malattia, per la disabilità, per la diversità tout court.

Nella sua aula trovai alcuni testi che la psicoterapeuta che curava Chiara dall’infanzia aveva consigliato alla sua insegnante di sostegno, e all’assistente educativo specialistico, un mini libro di racconti per simboli. Un prodotto Erickson[2] – casa editrice specializzata in pubblicazioni ad uso di soggetti con disturbi specifici di linguaggio e apprendimento, o affetti da autismo e sindrome di Asperger – che fa parte di una collana diretta da Maria Antonella Costantino per la Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA).[3] Questa propone prodotti essenzialmente grafici, con diversi livelli di difficoltà di lettura. Il primo è concepito per bambini dai 3 ai 6 anni e consiste in tre IN-book,[4]ognuno con un diverso racconto inedito, narrato per simboli di piccola dimensione (racchiusi in riquadri di due centimetri e mezzo di lato) stampati su pagina. A questa formula, nata dall’esperienza sul campo di una neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza e studiata per lo spettro dei disturbi dell’autismo, si ricorre generalmente anche per la sindrome di Rett, che tuttavia necessiterebbe ancor più di materiale individualizzato, data la gravità e la specificità della patologia. Peraltro ho definito le immagini raffigurate (forse troppo piccole e vicine per essere distinte facilmente l’una dall’altra, a causa  della loro giustapposizione su pagina) simboli, su indicazione della curatrice. Ma fra le immagini utilizzate erano poche quelle che potevano esser definite tali, e ciò – paradossalmente –  a vantaggio della comprensione di chi non esprime alcuna capacità di deduzione. Il simbolo è infatti un’immagine complessa, «frutto di convenzione o naturale associazione di idee» secondo quanto ne ha scritto Tullio de Mauro nel Grande dizionario italiano dell’uso. Meglio sarebbe stato, a mio parere, se le immagini impiegate per comunicare fossero state, soprattutto in questi casi, il più realistiche possibili, come quelle fotografiche.

Fra gli strumenti consigliati ho trovato anche un kit per creare racconti per immagini con l’impiego del personal computer. Si tratta di Boardmaker,[5]prodotto da Microsoft per Windows. Questo, oltre a non essere affatto user-friendly presenta addirittura qualche differenza di codice col prodotto italiano. In definitiva, se già è difficile comunicare, figuriamoci quanto può restare dei nostri sforzi comunicativi se manca addirittura una coerenza di base sul codice cui è associato l’unico elemento efficace, cioè l’immagine.

Tutto ciò per dire che se Chiara ha compiuto progressi nel tempo – pur alternati a evidenti gravi regressi – lo si deve all’elaborazione e impiego comunicativo di immagini elaborate sulla base del programma di arricchimento strumentale di Reuven Feuerstein

una strategia per lo sviluppo delle strutture cognitive dell’individuo in fase di apprendimento […] ha due obiettivi fondamentali che fanno riferimento a due principali campioni di popolazione: (1) arricchire il repertorio individuale delle strategie cognitive per arrivare a un apprendimento e a un problem solving più efficaci, e (2) recuperare le funzioni cognitive carenti e sviluppare strategie nel caso di individui con prestazioni ritardate o inadeguate […] lo scopo del PAS come programma di recupero è quello di modificare la struttura cognitiva globale delle persone con bisogni speciali trasformando il loro stile cognitivo passivo e dipendente in quello caratteristico di un allievo autonomo e indipendente.[6]

Di sicuro interesse, nonostante sia forse a tratti eccessivamente ambizioso, il PAS (Programma di Arricchimento Strumentale) è nato in Israele dalle gravi conseguenze del secondo dopoguerra e si è sviluppato, negli ultimi cinquant’anni,[7] dalle teorie di Jean Piaget e di Lev Vygotskij con l’intento tuttavia di distanziarsi sia dal «punto di vista dello sviluppo stadiale caro a Piaget , sia dallo stesso concetto di ZSP (Zona di Sviluppo Prossimale) di Vygotskij»[8] grazie all’azione di un mediatore che ha parte attiva in un processo di cambiamento cognitivo strutturale improntato da un approccio dinamico all’apprendimento, che diventa motore generativo ricorsivo dello stesso cambiamento che promuove.[9]

In sostanza, se è vero che l’organismo umano altera la propria struttura per adattarsi a nuove situazioni ambientali, così fa anche l’intelligenza, in quanto struttura plastica e modificabile. Ma c’è un secondo presupposto di principale importanza: per Feuerstein la deprivazione culturale (e quella affettiva, che assume pari importanza nel suo studio) è la principale causa – se non addirittura l’unica – di un deficit cognitivo.[10] Ogni deficit cognitivo può dunque trovare soluzione agendo sulla deprivazione culturale, a prescindere dalla condizione psico-fisica del paziente. Tale metodo consente peraltro una duplice applicazione: tanto quella volta a sviluppare l’intelligenza di un giovane deprivato (con effetti da deprivazione affettiva e/o culturale) quanto quella di un adulto a basso funzionamento cognitivo,[11] poiché la teoria della «modificabilità cognitiva strutturale» di Feuerstein «attribuisce all’uomo una propensione al cambiamento, qualunque sia la sua condizione, qualunque sia la sua età».[12]

Il programma di arricchimento strumentale è dunque un autentico sistema operativo che – sommariamente – partendo dalla descrizione del suo impianto teorico, mette a disposizione del mediatore (che diventa a tutti gli effetti un coach) un kit di strumenti d’intervento, affinché l’apprendimento diventi «una continua revisione di modelli da adattare alla situazione apprenditiva».[13] L’immagine impiegata nella comunicazione didattica, secondo il programma di arricchimento strumentale di Feuerstein, diventa quindi gradualmente più complessa, arricchendosi d’indicazioni di movimento (rappresentate ad esempio da frecce); e la giustapposizione delle immagini in sequenza narrativa si prolunga, impegnando il “lettore” in termini di qualità e durata di performance. Tuttavia c’è una condizione imprescindibile per ottenere quel cambiamento di stile cognitivo che il programma di arricchimento strumentale promette: richiede un’applicazione intensiva. E, in conclusione, ci sarebbe da aggiungere che qualunque sia il cambiamento, o il progresso conseguito, non potrebbe comunque prescindere da una giusta attitudine, e da quella determinazione tanto cara a Maria Montessori, per difetto delle quali insegnare diventa difficile, indipendentemente dalle potenzialità del discente. E tutto questo non può infine prescindere dall’amore, nell’accezione in cui ne trattò John Dewey, che è in definitiva ciò che anima la responsività[14] del miglior docente.

NOTE

[1] La sindrome di Rett è una rara patologia neurologica dello sviluppo che colpisce il sistema nervoso centrale e comporta un grave, talvolta gravissimo, deficit cognitivo prevalentemente in soggetti di sesso femminile. Si manifesta generalmente dopo i primi 6 – 18 mesi di vita, con la perdita nella motricità, delle capacità manuali, dell’interesse all’interazione sociale. La sua diagnosi è spesso confusa con quella dell’autismo.

[2] Erickson è la casa editrice che offre il più ampio catalogo di testi creati per soggetti con disturbi specifici del linguaggio, apprendimento, e per l’autismo e la sindrome di Asperger. La casa editrice Giunti propone invece testi su temi analoghi, ma concepiti in forma di guida per gli insegnanti.

[3] La Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) è «un’area della pratica clinica che cerca di compensare la disabilità temporanea o permanente di persone con bisogni comunicativi complessi» (American Speech-Language-Hearing Association, 2005). L’aggettivo «aumentativa» sta a indicare che tende non a sostituire ma ad accrescere la comunicazione naturale, utilizzando tutte le competenze e includendo le vocalizzazioni o il linguaggio verbale esistente, i gesti, i segni, la comunicazione con ausili e la tecnologia avanzata. Fumagalli L., Reicher E., Talavitto P., Junglelink (2012) p. 14.

[4] Fumagalli L., et al. (2012).

[5] Boardmaker è un prodotto statunitense creato da Mayer-Johnson.

[6] Feuerstein R. et al. (2008) pp. 43 – 44.

[7] La versione attuale è la terza, dal momento che il programma è stato sviluppato e implementato all’inizio degli anni Sessanta, rivisto verso la metà degli anni Ottanta e, infine, a partire dal 1994, è stato utilizzato nella sua forma presente. Feuerstein R. et al. (2008) p. 9.

[8] Feuerstein R. et al. (2008) p. 16.

[9] Feuerstein R. et al. (2008) p. 17.

[10] Feuerstein R. et al. (2008) pp. 11 – 12.

[11] Feuerstein R. et al. (2008) p. 15.

[12] Feuerstein R. et al. (2008) p. 15.

[13] Feuerstein R. et al. (2008) p. 26.

[14] Responsività esprime qui il significato dell’inglese responsive, termine tecnico-specialistico di matrice psicologica.

Metalinguaggio: l’irresistibile tentazione degli intellettuali

«Concepiti per mostrare la validità di una determinata teoria, i manuali, i testi e i saggi di natura “teorica”, presentano un linguaggio grammaticale specifico, un metalinguaggio legato al modello e comprensibile solo agli addetti ai lavori».[1] Anche se quanto qui dichiarato perentoriamente da Paola Giunchi[2] è riferito alle grammatiche in lingua inglese, il metalinguaggio è il principale responsabile delle difficoltà scolastiche di tutti i discenti. E ciò non vale tanto per la complessità dei termini che, per quanto corretti, sono il più delle volte di comprensione immediata giusto per etimologi allenati, ma per quella ridda di definizioni e classificazioni sulla foggia delle quali si è esercitata la tradizione grammaticale italiana. Perché i nostri grammatici, come purtroppo buona parte dei nostri intellettuali (eccezion fatta per i grandi divulgatori tra i quali è doveroso annoverare Tullio de Mauro, e il suo collega e amico Umberto Eco se solo consideriamo che con Il nome della rosa ha attirato l’interesse mondiale sulla filosofia medievale) non temono evidentemente l’autoreferenzialità. Proprio come se, nell’atto di scrivere, non fossero tanto interessati a spiegare ciò di cui sono esperti a inesperti, quanto a stabilire talora vane competizioni.

Per Monica Berretta, autorevole linguista scomparsa all’inizio di questo secolo dopo aver ricoperto la carica di presidente della Società di linguistica italiana,

la grammatica tradizionale […] è […] un coacervo di concetti, nozioni, tecniche d’analisi, accumulatisi nel corso della storia della nostra cultura, a partire da una base dovuta ai filosofi greci d’età classica e ai grammatici alessandrini, via via attraverso le aggiunte e le sistematizzazioni attuate dai romani, dagli […] scolastici medievali, dai giansenisti di Port-Royal e dagli enciclopedisti dell’Encyclopédie. Il tutto, con l’aggiunta di regole varie scoperte od inventate ad hoc dai grammatici italiani a scopo specificatamente pedagogico.[3]

Ma proviamo a passare in rassegna alcune delle principali incongruenze concettuali che concorrono a ostacolare una piena comprensione dei testi scolastici di grammatica italiana:

1. Nell’identificazione delle categorie sia morfologiche (nome, articolo, verbo ecc.) che sintattiche (soggetto, predicato complemento ecc.) vengono proposti criteri diversi, tra loro non coerenti […].

2. Alcune nozioni e distinzioni grammaticali considerate universali (non solo le categorie, ma anche il genere, il numero, l’aspetto del verbo, la negazione ecc.) hanno realizzazioni diversissime da lingua a lingua, spesso non confrontabili e non descrivibili sulla base dei criteri enucleati dalla riflessione grammaticale occidentale […] Dunque è stata a più riprese polemicamente notata l’assenza di universalità delle categorie proposte […] alcune delle quali risultano assenti anche in lingue geneticamente relate (si pensi al latino, lingua priva di articolo, e all’italiano, lingua priva di casi).

3. Il criterio nozionale-semantico, applicato in modo dissennato, può portare, e di fatto ha portato, ad una inutile proliferazione di categorie e sottocategorie che potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Si pensi alle sottoclassi degli aggettivi (qualificativi, dimostrativi, numerali…, questi ultimi a loro volta suddivisi in cardinali, ordinali, moltiplicativi, frazionari, distributivi, collettivi e forse altri), o alle lunghe sfilze di complementi (dai più comuni ai più sofisticati complementi “di esclusione”, “di privazione”, “di scambio”, “di relazione” e così via). Ci si è chiesto, a ragione, quale fosse l’utilità didattica di simili complicate tassonomie, le quali costituiscono dunque «un chiaro esempio di proliferazione di nozioni non giustificate a livello operativo», il cui riconoscimento è alla fine spesso affidato a ragioni «puramente intuitive» (Simone, Cardona, 1971, p. 376).[4]

Che quanto qui descritto sia legato all’insegnamento del latino non vi è dubbio. Non ci stupisca però se questa situazione poi induce gli adolescenti a eludere il contatto coi libri per l’intera durata dell’anno scolastico. Col rischio di suscitare un’avversione per la cultura che potrebbe protrarsi per tutto il corso della loro vita. Ma torniamo per un breve tratto alle parole di Monica Berretta

Le basi teoriche della grammatica tradizionale sono estremamente fragili, e ancor più deboli sono le sovrastrutture ideate dai grammatici per spiegare le peculiarità dell’italiano […] Eppure tutta questa complicatissima e farraginosa costruzione […] viene (o veniva) pedissequamente e ostinatamente insegnata, lezione per lezione, esercizio per esercizio, ai bambini delle elementari e ai preadolescenti: per abbandonarla poi ai livelli superiore e universitario, proprio quando lo sviluppo mentale raggiunto rende lo studente perfettamente in grado – e anche bisognoso, probabilmente – di un approccio scientifico, sistematico, al fenomeno “lingua”.[5]

Su questo argomento è intervenuto anche il Decreto Ministeriale emanato il 9 febbraio 1979 su Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale, cui ho già fatto cenno, che così descrive la distanza esistente tra la «lingua in atto» e l’insegnamento delle «regole» grammaticali:

l’apprendimento linguistico comporta la riflessione sulla lingua in atto: è il problema della grammatica, non come proposta di astratte e aride cognizioni teoriche e terminologiche, ma come riflessione sui caratteri essenziali dell’organizzazione della lingua nella realtà dei suoi usi. Le “regole” della grammatica non sono che uno strumento di analisi della lingua solo approssimativo e sono infatti relative alle varietà linguistiche e alle diverse esigenze espressive: sono inoltre il risultato di un’evoluzione storica. [6]

Per concludere, lascio la parola ad alcuni fra i più autorevoli “tecnici” italiani, a partire da Raffaele Simone[7] che così spiega perché ha scritto il suo Libro d’italiano:

[…] volevo anzitutto chiudere con la tradizione delle torture scolastiche basate sulla grammatica, e pensavo che per ottenere questo risultato occorressero alcune categorie concettuali nuove […] niente più grammatica mnemonica, niente più morfologia, niente tabelle, ma alcune aree tematiche molto selezionate (e forse un po’ scombinate) con cui mi lusingavo di trascinare la passione degli insegnanti e dei ragazzi: la semiotica, la sociolinguistica, la storia della lingua, le classi sociali nella lingua, la varietà di modi di dire le cose, il significato delle parole, e così via […]

Il tentativo di Simone fu quello di cercare dei contenuti e un metodo in grado di innescare la crescita linguistica, di ampliare il repertorio dei significati e delle forme disponibili dando spazio alla inesauribile creatività che è alla base della capacità umana di comunicare attraverso il linguaggio, di fare, in una parola, proprio quello che il modello tradizionale non era mai stato in grado di fare.[8]

Ma poi Raffaele Simone tornerà sui suoi passi pentendosi dell’intenzione si smantellare tutto ciò che gli sembrava costrittivo.

Chi invece non ebbe mai dubbi sulla necessità di “fare grammatica” fu Monica Berretta, che pure non fu mai tenera con i contenuti ed i metodi tradizionali dell’insegnamento grammaticale […] la studiosa diresse la sua attenzione su alcuni dei modelli grammaticali che si erano all’epoca imposti nel panorama linguistico internazionale, per cercare un’alternativa plausibile al modello tradizionale: dal funzionalismo di Martinet alla grammatica delle valenze di Tesnière, dallo strutturalismo americano di Bloomfield alla grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky, dalla semantica componenziale alla semantica generativa, dalla grammatica dei casi di Fillmore al funzionalismo inglese di Halliday, alla linguistica testuale.[9]

Di tutto ciò Monica Berretta studiò le possibili applicazioni nella didattica ma, per quanto questo fosse un esperimento di sicuro interesse teoretico, ne derivò un quadro decisamente problematico senza giungere a soddisfare pienamente le esigenze nonostante le premesse.

Per Lorenzo Renzi[10]invece non esiste alcuna teoria linguistica moderna che possa sostituirsi all’insegnamento della grammatica consentendo nello stesso tempo di ottenere risultati migliori. Anche se, a suo parere, una «grammatica ragionevole per l’insegnamento» avrebbe potuto fare la differenza.

Pur confermando nella sua analisi alcune ipotesi di fondo della giovane linguistica italiana (la grammatica non insegna la lingua ma la descrive, la grammatica non ha intenti normativi), e pur ribadendo molte delle critiche mosse all’impalcatura grammaticale tradizionale (le definizioni di categorie e sottocategorie sono incerte, spesso errate), Renzi tuttavia argomenta con ottime ragioni come la miglior base di un insegnamento grammaticale sia ancora la grammatica tradizionale, purché ripensata nei presupposti epistemologici, liberata dalle sue contraddizioni e dalle incrostazioni pedantesche.[11]

Francesco Sabatini[12]fu un vero e proprio paladino invece del modello valenziale che adottò già nella prima edizione (1984) della sua grammatica per le scuole, che considerò modello ideale in virtù delle sue caratteristiche di semplicità e potenza descrittiva; caratteristiche che probabilmente ne decretarono la fortuna.[13]

Ma, indipendentemente dall’ordine e grado scolastico di destinazione di queste opere, l’ironia intellettuale di cui Tullio de Mauro è stato insigne maestro è chiosa perfetta di questa ampia ma necessaria parentesi. Egli ricorda che

cominciavano a circolare nelle scuole, destinate agli alunni, grammatiche strutturaliste, grammatiche generativiste, grammatiche semanticiste. A diversi di noi parvero una cattiva risposta all’esigenza di far fare un salto al livello di formazione degli insegnanti e alle pratiche dell’educazione linguistica. L’illusione di quelle rifritture pseudomodernizzanti delle grammatiche tradizionali […] era che, spiegando a un bambino di sei anni che cosa è un “monema” o un predicato a tre argomenti, tutto avrebbe funzionato meglio.[14]

Delle alterne fortune della grammatica nella didattica delle lingue straniere, o seconde,[15] ha scritto Paola Giunchi nella sua grammatica teorica della lingua inglese, ponendo in evidenza due concetti chiave:

La questione dello studio delle regole della grammatica rappresenta di fatto il nucleo centrale da cui deriva la scelta di ogni attività pedagogica prevista nell’iter didattico all’interno di ciascun approccio metodologico. […]

Non vi è dubbio che in questo senso solo una grammatica che consideri come suo obiettivo primario l’interiorizzazione del sistema della lingua “d’arrivo” risponda a pieno alle esigenze del processo di apprendimento/insegnamento linguistico. Per questo motivo, tanto la grammatica teorica o scientifica, che costituisce un modello di rappresentazione astratto, quanto la grammatica descrittiva, che rappresenta in modo esplicito il sistema linguistico, non sono direttamente utilizzabili ai fini didattici, a cui risponde solo un modello di tipo pedagogico. [16]

Ma cosa s’intende per grammatica di tipo pedagogico (come, ad esempio, quella raffigurata)? In termini pratici, si tratta di una grammatica a doppia impostazione – una pensata per il discente, l’altra per l’insegnante – onde soddisfare le esigenze di un insegnamento più versatile ed efficace rispetto al passato. Tale caratteristica può anche meglio prestarsi a ricalcare l’evoluzione delle lingue in uso, al passo con la società. Tenendo ben presente uno dei principali obiettivi che la centralità del linguaggio verbale,[17]in una didattica inclusiva, si prefigge: l’interiorizzazione di una lingua non nativa, così che tutti – nessuno escluso – possano farla presto propria e “viverla”. La grammatica considerata in quest’ottica diventa dunque l’ultimo fattore di un processo d’interiorizzazione, da acquisire con metodo induttivo grazie all’interazione con l’insegnante, per mezzo di input progressivi e calibrati, e dall’ambiente didattico e sociale nel quotidiano. Questo sulla base di una nuova considerazione dell’errore, e nella tensione costante alla personalizzazione dell’atto educativo, nel quale il rapporto interattivo tra insegnante e alunno gioca un ruolo fondamentale. Mi auguro che, in questa descrizione, sia riuscito a suggerire agli addetti ai lavori un’eco, sia pur flebile, del ruolo centrale che John Dewey attribuì all’esperienza nell’attività pedagogica.[18] E ad accennarvi gli effetti della teoria dell’input hypothesis di Stephen Krashen,[19] poi confluita e “scientificizzata” nella zona di sviluppo prossimale da Lev Vygotskij[20] e, ultima, ma non per importanza, la teoria ecologica dello sviluppo di Urie Bronfenbrenner.[21]

Ci sono tuttavia segnali di rinnovamento. Giuseppe Patota e Francesco de Renzo,[22] un autorevole membro del GISCEL, forti della loro comune competenza in L2, hanno scritto Funziona Così, una grammatica per la scuola media in cui il metalinguaggio è quantomeno “dosato”.[23] Una considerazione sulla semplificazione della nostra grammatica è tuttavia necessaria: l’italiano, comunque lo si semplifichi, resta una delle lingue in uso più difficili da apprendere e insegnare.

In quest’opera gli autori hanno ridotto all’essenziale l’apparato classificatorio e sono ampiamente ricorsi all’utilizzo d’immagini, e all’alternanza di colori e caratteri grafici, per introdurre in un testo didattico di alto livello nozionistico una componente ludica. Componente utile, se non addirittura ormai indispensabile. Ne è nato un testo caratterizzato da inediti tratti di modernità, oltre che corredato di un supporto informatico e di una «palestra Invalsi».[24] Si tratta dell’ultimo dei quattro agili volumi di cui si compone, il primo dei quali è dedicato a fonologia, ortografia e morfologia, il secondo alla sintassi, il terzo essenzialmente al lessico. Nonostante ciascuna delle sezioni sia corredata di esercizi, il quarto volume ne raccoglie alcuni distinti per argomento, strutturati per indurre il discente a familiarizzare con quei criteri di oggettività,[25] nella somministrazione e valutazione delle prove di profitto, per i quali la sigla Invalsi è ormai invisa non soltanto agli studenti.

Il miglior pregio di quest’opera non sta tanto nella sua accuratezza e nel ricorso al fumetto per mantenere alto l’interesse del discente circa una materia che, ai tempi della scuola, ha dato problemi a tutti noi (o quasi), quanto nella sua costante tensione alla chiarezza concettuale e sintesi: in una parola, alla semplificazione.

NOTE

[1] Giunchi P. (2005) p. 37.

[2] Paola Giunchi è docente di didattica delle lingue moderne a La Sapienza.

[3] Lo Duca M.G. (2013) p. 157.

[4] Lo Duca M.G. (2013) pp. 158 – 159.

[5] Lo Duca M.G. (2013) pp. 159 – 160.

[6] D. M. 9 febbraio 1979 p. 14.

[7] Raffaele Simone, linguista vivente, è stato direttore del dipartimento di Linguistica dell’Università degli studi Roma Tre.

[8] Lo Duca M.G. (2013) pp. 164 – 165.

[9] Lo Duca M.G. (2013) pp. 165 – 166.

[10] Lorenzo Renzi, linguista e studioso di grammatica storica, è stato presidente della Società di linguistica italiana.

[11] Lo Duca M.G. (2013) pp. 168 – 169.

[12] Francesco Sabatini è un linguista, filologo e lessicografo. Ha ricoperto la carica di presidente dell’Accademia della Crusca.

[13] Lo Duca M.G. (2013) pp. 173 – 174.

[14] Lo Duca M.G. (2013) p. 176.

[15] In linguistica acquisizionale la denominazione di lingua straniera viene riservata al caso in cui una lingua seconda è appresa al di fuori di una comunità di parlanti nativi, tipicamente nel contesto scolastico […] lingua nativa, o lingua materna o madrelingua […] quella che si inizia ad acquisire in età infantile nella socializzazione primaria. Altre lingue, che un individuo inizia ad acquisire dopo la prima infanzia, vengono dette lingue seconde o L2. Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) pp. 14 – 15.

[16] Giunchi P. (2005) pp. 10 -11.

[17] La centralità del linguaggio verbale, come evidenziato in premessa, è oggetto della prima (e concetto sviluppato nella terza e nell’ottava) delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica. De Mauro T. (2018) pp. 269 – 280.

[18] Dewey J. (2014).

[19] Stephen Krashen, linguista americano, sulla base del generativismo di Noam Chomsky, formulò la teoria dell’input + 1, più nota come “i + 1”, in cui sottolineò l’imprescindibilità della natura progressiva dell’input da impartire, in funzione della sua comprensibilità ed efficacia.

[20] Lev Vygotskij fissò nella zona di sviluppo prossimale, da individuare nelle abilità già in possesso del discente, la base da cui partire per calibrare l’input progressivo.

[21] Urie Bronfenbrenner (psicologo russo, naturalizzato americano, morto all’inizio del nostro secolo) mise in evidenza la natura effettuale e imprescindibile dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente già a partire dai primi mesi di vita. Conferì quindi all’ambiente ecologico, o per meglio dire sociale, un ruolo specifico nell’educazione del bambino sulla base dell’assunto: tanto siamo influenzati dall’ambiente nella nostra evoluzione, quanto siamo in grado di influenzarlo a nostra volta. E solo l’interazione, a partire da quella sensoriale tra madre e figlio, fino al rapporto di scambio reciproco che si instaura tra insegnante e alunno, può favorire la conoscenza.

[22] Francesco de Renzo, allievo di Tullio de Mauro, è docente di didattica delle lingue moderne a La Sapienza.

[23] Patota G., De Renzo F.. (2012).

[24] INVALSI è l’Istituto Nazionale per la VALutazione del Sistema educativo di Istruzione e di formazione.

[25] Per i dettagli si invita alla consultazione di Lucisano P., Salerni A. (2002) pp. 227 – 259.

Bibliografia

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