L’apprendimento e i suoi processi
Come Margherita Orsolini, docente di psicologia dello sviluppo e dell’educazione a La Sapienza, sottolinea in Difficoltà di lettura nei bambini
fino a qualche decina di anni fa l’apprendimento della lettura e della scrittura non veniva considerato un oggetto d’indagine della psicologia, ma soltanto un argomento pedagogico. Il motivo era abbastanza ovvio: leggere e scrivere venivano considerate tecniche o strumenti, puro frutto di un insegnamento e di un apprendimento. […]
Dobbiamo alla conoscenza delle teorie di Lev Vygotskij[1] un radicale cambio di prospettiva[2]
Prima di tutto è diventata più chiara la profonda diversità tra lingue parlate e lingue scritte. È una diversità di usi, di processi cognitivi sottostanti, di modalità di apprendimento. Anche la lettura e la scrittura, così come la lingua parlata, sono funzioni psichiche “superiori” (Vygotskij, 1974), la cui origine è culturale, ma al tempo stesso radicata nello sviluppo biologico-naturale del bambino. Come altre funzioni psichiche superiori, lettura e scrittura non si apprendono né per pura imitazione, né semplicemente memorizzando alcune regole, bensì attraverso uno sviluppo interno. [3]
Infatti, come sostiene anche Antonella Reffieuna[4] in Come funziona l’apprendimento
La definizione più generale di apprendimento è quella che lo considera come un cambiamento di natura incrementale: «è il processo attraverso il quale le conoscenze sono acquisite, elaborate o modificata attraverso lo studio, l’addestramento e l’esperienza» (Ford e Lerner, 1992, p.73). Nella definizione vi sono alcuni punti degni di attenzione, anche perché tali da comportare conseguenze operative di non scarsa importanza.
- In primo luogo l’apprendimento viene considerato un processo. Ciò significa che:
- ha luogo nel corso del tempo […];
- si realizza in rapporto a un obiettivo da raggiungere, in riferimento al quale può essere poi valutato;
- è articolato in una serie di processi sottostanti i quali sono fra loro in rapporto gerarchico.
Per questo motivo il processo (di per sé astratto) deve tradursi in una serie di procedure operative. Il processo definisce il modello a cui si deve conformare il comportamento degli individui e quindi permette di precisare che cosa ci si attende da loro.
I processi coinvolti nell’apprendimento dunque comprendono

processi che rendono possibile l’apprendimento in generale (attenzione, memoria, linguaggio), i processi-chiave dell’apprendimento scolastico (codifica e decodifica) e processi che sono il risultato dell’apprendimento stesso (scrittura, lettura e calcolo).[5][…]
- Apprendere non significa necessariamente acquisire nuove conoscenze. Attiene all’apprendimento anche la costruzione di nuove relazioni tra conoscenze già disponibili e la modificazione di quelle pregresse. […] L’apprendimento comporta quindi, in ogni caso, la costruzione di qualcosa di nuovo, anche se può essere nuovo solo per il singolo individuo.
- L’apprendimento ha luogo secondo tre modalità: l’esperienza diretta, l’addestramento, lo studio. Il ricorso all’una piuttosto che all’altra dipende dal contesto in cui esso si realizza (la scuola, la casa, un luogo extrascolastico) e da ciò che deve essere appreso (un’abilità, un contenuto disciplinare, una capacità complessa). Tutte e tre le modalità devono trovare posto a scuola, anche se in quest’ultima lo studio assume maggiore rilevanza. Si consideri ad esempio che l’acquisizione legata ai movimenti della scrittura comporta necessariamente la messa in atto di processi simili all’addestramento, in quanto l’allievo deve acquisire la fluenza e l’automatismo; l’acquisizione di comportamenti sociali adeguati necessita inevitabilmente di esperienze dirette di vita sociale; l’apprendimento della matematica o della storia è possibile solo grazie allo studio. Proporre agli allievi esclusivamente attività di studio significa non consentire il raggiungimento di elevati livelli di padronanza.
- L’apprendimento si deve comunque risolvere in un incremento delle conoscenze, delle capacità possedute, della complessità dei comportamenti che l’allievo mette in atto e del livello di complessità dell’interazione con l’ambiente (Ford e Lerner, 1992). Incremento non significa semplicemente «aggiunta quantitativa». […] L’incremento di complessità dovrebbe infatti portare alla progettazione di percorsi di apprendimento fondati su una gradualità non estrinseca e non riferita solo alle nozioni disciplinari, ma connessa ai comportamenti messi in atto dagli allievi. Con l’aumentare dell’età si dovrebbe assistere alla messa in atto di abilità sempre più raffinate e organizzate, tali da far fronte alle richieste di compiti sempre più specifici e specializzati. […]
L’apprendimento è quindi la sintesi di numerosi cambiamenti a breve termine che conducono, a lungo termine, all’emergere di nuove conoscenze e nuove capacità (Fischer e Granott, 1995).[6]
L’apprendimento per le neuro-scienze
Ancora più incisiva nell’analisi dei processi cognitivi, perché disciplina sperimentale, è la psicolinguistica, scienza che studia in laboratorio i processi neuro-cognitivi nel momento in cui avvengono, per la quale
mentre l’efficacia dei giudizi di accettabilità[7] come mezzo per accedere alla conoscenza implicita, intuitiva, senza attivare meccanismi di processing,[8] è stata recentemente più volte messa in discussione, hanno preso piede tecniche di osservazione della competenza che si servono di marcatori fisiologici (Rastelli 2013), siano essi misure dell’attività cerebrale (attraverso la risonanza magnetico-funzionale –fMRI-, la tomografia a emissione di positroni –PET- i potenziali elettro-correlati-PET) o misure indirette dell’attenzione (come l’osservazione dei movimenti oculari –eye tracking). Queste diverse tecniche hanno in comune che osservano reazioni involontarie dell’apprendente a uno stimolo linguistico, cioè reazioni sulle quali l’apprendente non ha controllo cosciente, e che per questo sono ritenute manifestazione diretta della competenza depositata nel cervello a livello subcosciente, prima che entrino in gioco da un lato attività di riflessione esplicita, dall’altro l’attività di processing che presiede all’esecuzione di un compito comunicativo. Occorre dire che, anche in questo caso, il parlante “fa” qualcosa a livello di processing, quando elabora uno stimolo linguistico: ad esempio, nel caso in cui lo stimolo linguistico sia di tipo scritto, il parlante deve decodificare lo stimolo mettendo in azione le procedure di processing che presiedono alla lettura. Il vantaggio rispetto alle canoniche tecniche di osservazione del comportamento linguistico risiederebbe però nel fatto che ai parlanti non è richiesto un tipo di risposta comportamentale in reazione allo stimolo: l’unica attività di processing – perlomeno, l’unica attività di processing esplicitamente richiesta – è legata alla decodifica dello stimolo verbale.[9]
I neuro-processi alla base dell’apprendimento
Codifica e decodifica[10]
La decodifica di uno stimolo verbale è uno dei principali neuro-processi alla base dell’apprendimento; un passaggio d’obbligo per tutti, sempre e comunque.
Il processo di decodifica è quello coinvolto nella lettura e comporta la trasformazione del segno scritto in suono. Il processo di codifica è invece coinvolto nella scrittura e comporta la trasformazione inversa: dal suono al segno scritto. L’apprendimento della lingua scritta richiede necessariamente la padronanza dei due processi, i quali, se imperfetti, sono all’origine di disturbi dell’apprendimento quali la dislessia, la disortografia, la discalculia. È però molto limitativo credere che solo la lettura e la scrittura coinvolgano tali processi. In realtà si potrebbe affermare che codifica e decodifica sono i processi-base dell’intero apprendimento scolastico. Ogni disciplina, infatti, comporta la necessità di saper decodificare e codificare dei simboli.[11]
Ma è la nostra vita sociale che mette continuamente alla prova questi due meccanismi, di cui provo a descrivere il funzionamento in condizioni tipiche
La velocità della lingua parlata, di cui ci accorgiamo quando tentiamo di cogliere qualche suono in una lingua che conosciamo a malapena, ci riporta alla funzione centrale del linguaggio: compiere azioni con altre persone attraverso le parole, tentare di affermare o negare opinioni, negoziare piani e intenzioni con un interlocutore. Tutto questo richiede un ritmo rapido, […] parole che velocemente si allineano con il pensiero. […] Con la lingua scritta gli uomini hanno però inventato un modo per fermare la velocità della lingua parlata. L’immobilità è servita come supporto al ricordo e alla memoria.[12][…]
L’apprendista lettore è già un esperto parlante della lingua ed è quindi già in possesso di un ricco lessico mentale nel quale ha immagazzinato numerose informazioni relative alle parole della lingua. Il lessico mentale (Laudanna e Burani, 1993) può essere inteso come un complesso magazzino nel quale sono accumulate le memorie che si riferiscono alle parole. Quando ascoltiamo o leggiamo una parola recuperiamo dal lessico mentale diversi tipi di conoscenza sulla parola. Ad esempio, sentendo e riconoscendo la parola gelataio, recuperiamo dal lessico mentale informazioni sulla sua forma fonologica (caratteristiche fonemiche, fonoarticolatorie e prosodiche), informazioni relative alla sua struttura morfologica quali la sua struttura di radice (gelat-) e di suffisso derivazionale (-aio), informazioni grammaticali e sintattiche e, ovviamente, informazioni semantiche che ci permettono di identificare il significato della parola come quello di «persona che prepara o vende i gelati».[13]
Ma l’elemento principale che la nostra memoria richiama, oltre all’immagine ortografica della parola, è un’immagine “concettuale” del gelataio, in forma di ricordo se già acquisita, associata all’immagine della parola che stiamo elaborando. Infatti
Man mano che il parlante diventa anche un lettore, e viene sempre più esposto alla forma scritta delle parole, alle informazioni già presenti nel lessico mentale si aggiungono anche informazioni sulla forma ortografica delle parole. Quando si legge una parola, quindi, il riconoscimento della parola nel lessico mentale permette l’accesso a tutte queste informazioni. […] il modello di lettura a due vie di Coltheart (Coltheart et al. 2001) […] ipotizza che quando ci troviamo di fronte una stringa di lettere da leggere ad alta voce, si attivino due processi paralleli, due vie di lettura, appunto. Una delle due vie è la cosiddetta via lessicale e presuppone l’esistenza di un lessico mentale nel quale sono già contenute un certo numero di memorie ortografiche. Nella via lessicale l’input ortografico viene elaborato da un sistema di analisi visiva che prende in considerazione sia la forma delle lettere, che la loro posizione relativa all’interno della parola, la stringa viene quindi confrontata come intero con le memorie ortografiche immagazzinate nel lessico mentale e, in caso di corrispondenza […] si accede velocemente e in modo diretto a tutte le informazioni che, per quella parola, sono immagazzinate nel lessico. Quindi anche al suo significato e alla sua forma fonologica. […] La via lessicale permette però di leggere solo parole precedentemente conosciute dal lettore e per le quali sia stata già creata una rappresentazione ortografica nel lessico mentale. Le parole mai viste o poco conosciute non possono, per definizione, essere lette per via lessicale perché non possiedono ancora una loro entrata ortografica distinta nel lessico. Il modello prevede quindi una via alternativa a quella diretta, denominata via fonologica o sublessicale. Questa modalità di accesso prevede una procedura di ricodifica fonologica: la forma scritta dell’input viene segmentata in unità minime, i grafemi,[14] ai quali vengono applicate le regole di conversione grafema-fonema della lingua, associando a ogni grafema il suono corrispondente e successivamente assemblando i suoni decodificati per arrivare alla pronuncia della parola. Questa procedura non prevede un accesso obbligatorio al lessico mentale e la parola può essere pronunciata ad alta voce anche senza recuperarne il significato. Il recupero del significato di una stringa (se esistente) può avvenire in un momento successivo […]. Si può pensare quindi che la via sublessicale debba essere più lenta di quella diretta. […] Quando si legge una stringa di lettere, le due vie di lettura partono insieme: l’elaborazione termina quando una delle due vie permette l’accesso lessicale e/o la pronuncia della parola.[15]
Ma qual è il processo di sviluppo che porta i bambini alla costruzione di un sistema di lettura completo nel quale sia possibile sia una lettura di tipo fonologico che una lettura di tipo lessicale?
Secondo il modello di sviluppo proposto da Frith[16] (1985), basato su osservazioni di bambini di lingua inglese,[17] l’acquisizione della lettura comincia con uno stadio «logografico» nel quale il bambino utilizza indizi visivi salienti per costruire un vocabolario visivo che gli permette di riconoscere in modo immediato, «a vista» appunto, parole molto familiari.
A questa prima fase, secondo Frith, ne segue una seconda, chiamata fase «alfabetica», che coincide con l’inizio dell’istruzione formale e con l’insegnamento esplicito dei principi alfabetici che regolano il sistema ortografico. In questa seconda fase il bambino impara a scomporre le parole in lettere e grafemi e ad assegnare ai singoli elementi il loro valore fonetico. Le parole quindi non appaiono più al bambino come forme ortografiche unitarie ma come insiemi di simboli linguistici e il bambino da veloce «riconoscitore» di scritte familiari, diventa un lento decodificatore di parole, familiari e non, utilizzando quella che nel modello a due vie della lettura descritto prima (Coltheart, Rastle, Perry, Langdon e Ziegler 2001) viene chiamata via fonologica.
Secondo il modello di Frith, un passo verso la ricodifica fonologica è determinato dall’apprendimento della scrittura […]. Nella terza fase si sviluppa una strategia «ortografica» attraverso l’uso della via lessicale. In questa fase i bambini riconoscono immediatamente le parole familiari, non più attraverso caratteristiche grafiche ma attingendo a dettagliate memorie lessicali. Le parole, a questo punto, sono «catalogate» nel lessico mentale in base a unità ortografiche più grandi della singola lettera/grafema, unità che vanno a coincidere con i morfemi. La pronuncia delle parole non viene più assemblata ma recuperata dalla memoria e il bambino non necessita più, per le parole familiari, di faticose ricodifiche fonologiche ma il processo di lettura acquisisce automatismo e immediatezza.[18]
Esistono ipotesi alternative, comunque attendibili. Una di queste è la self-teaching hypothesis,[19] anche se il modello più articolato resta quello della psichiatra tedesca, che torno a descrivere
Nel modello di Uta Frith (1985) lettura e scrittura hanno un andamento evolutivo non coincidente […] una fase successiva del processo di apprendimento della lingua scritta […] prevede invece che sia la lettura a trainare la scrittura: i bambini apprendono le regole e i pattern ortografici prima attraverso la lettura e, successivamente, applicano queste nuove conoscenze ortografiche anche alla scrittura. […]
Siegel, Share e Geva (1995) concordano sul fatto che
lettura e scrittura sono basate sulla conoscenza delle regole di conversione grafema-fonema e fonema-grafema (o anche di unità più ampie) e sulla «conoscenza ortografica», cioè l’acquisizione delle regole ortografiche del linguaggio e delle specifiche rappresentazioni ortografiche delle parole.[20]
Quindi nei casi di dislessia è necessario rendere quanto più possibile chiara la rappresentazione grafica delle parole. Infatti
Lettura e scrittura sono competenze complesse che coinvolgono abilità di base diverse, sia di carattere generale, sia di carattere più specifico, cioè legate all’elaborazione di particolari tipi d’informazione. Abilità dominio-specifiche sono per esempio quelle fonologiche, che utilizzano rappresentazioni di una specifica componente del linguaggio, oppure quelle visuospaziali che elaborano informazioni integrando forma visiva e direzione/posizione spaziale. Lettura e scrittura coinvolgono ovviamente ambedue questi tipi di abilità dominio-specifiche. Le lettere sono configurazioni il cui riconoscimento dipende da un’elaborazione visuospaziale e, contemporaneamente, l’apprendimento di queste configurazioni dipende da una memorizzazione sia visiva sia fonologica. Abilità più generali, e indipendenti dal particolare tipo di informazioni, sono quelle che permettono di dedicare attenzione consapevole a un compito, controllare informazioni o risposte che possono essere in conflitto fra loro, alternare l’attenzione fra tipi di informazioni diverse a cui applicare procedure o regole, mantenere in memoria una serie di informazioni visive o verbali il tempo necessario che permetta al sistema cognitivo un’elaborazione di queste stesse informazioni[21]
funzione, questa, propria della memoria di lavoro.
La memoria di lavoro
La memoria di lavoro può essere definita come la capacità di trattenere temporaneamente informazioni durante il corso di un’attività mentale e, per questo, è stata paragonata a una lavagna. Tale immagine, anche se suggestiva, rischia di essere fuorviante. In effetti la memoria di lavoro non è (soltanto) uno spazio mentale su cui vengono depositate informazioni provenienti dall’esterno oppure dalla memoria a lungo termine, ma include nel suo funzionamento anche una serie di processi che regolano le operazioni con cui le informazioni trattenute vengono elaborate.
La psicologia cognitiva ha proposto differenti modelli di memoria di lavoro, di cui il più accreditato in letteratura è il cosiddetto modello standard, un’architettura funzionale delineata da Baddeley ed Hitch (1974) per la prima volta a metà degli anni settanta e in seguito varie volte rivisitata (Baddeley, 2000, 2003, 2006). […]

Nella prima versione del modello standard, la memoria di lavoro viene concepita come un sistema complesso in cui l’attività di due servosistemi (slave systems), il ciclo fonologico (phonological loop) e il taccuino visuo-spaziale (visual-spatial sketch pad), risulta coordinata e controllata da una componente sovraordinata: l’esecutivo centrale (central executive). I servosistemi sono specializzati nel trattare materiale rispettivamente di tipo verbale e di tipo visuo-spaziale, e, a loro volta, sono frazionabili in sotto-componenti con meccanismi funzionali specifici (Baddeley, Hitch 1974). Nel tentativo di rendere conto di alcuni fenomeni non interpretabili in base al modello tripartito, di recente è stato incorporato un quarto servosistema, il buffer episodico (episodic buffer) (Baddeley, 2000), specializzato per materiale di tipo multimodale. […] Il ciclo fonologico è costituito da due sottocomponenti: il magazzino fonologico e la ripetizione subvocalica o ripasso articolatorio. Il primo è una sorta di deposito che conserva informazioni di tipo verbale in quantità limitata e per un breve tempo (circa due secondi), dopo di che esse decadono. Il secondo è un processo che “rinfresca” le tracce (ripetendole sottovoce oppure mentalmente) impedendone la perdita, e facendole rientrare nel magazzino. Il materiale verbale uditivo accede direttamente al magazzino e, come si è detto, se interviene il ripasso può essere mantenuto più a lungo, mentre il materiale verbale scritto prima di arrivare al magazzino deve essere convertito nel codice fonologico dal ripasso articolatorio che dunque svolge anche questa importante funzione. […] Il taccuino visuo-spaziale è formato da due sottocomponenti: un magazzino (visual cache) che svolge la funzione più passiva di deposito di informazioni visive (forme, colori, tessiture e orientamenti di oggetti) ed un processo di ripetizione (inner scribe) in grado di ripassare l’informazione.[22]
Il buffer (magazzino) episodico, è una componente della memoria di lavoro che può spiegare l’influenza della memoria a lungo termine sulla memoria di lavoro.
In concreto, il buffer episodico attinge rappresentazioni dalla memoria a lungo termine[23] per organizzare le informazioni che riceve dagli altri servosistemi, le integra in una rappresentazione multimodale – in un “episodio” dotato di significato – e le mantiene temporaneamente (per un tempo più lungo rispetto a quello del ciclo fonologico o del taccuino visuo-spaziale) per permetterne la manipolazione attiva. L’esecutivo centrale svolge l’attività di supervisione, controllo e coordinazione delle informazioni che provengono dai servosistemi ed esercita, anzitutto, una funzione di controllo volontario dell’attenzione. […] In sintesi: la memoria di lavoro è un sistema multicomponenziale che mantiene accessibili durante le attività cognitive rappresentazioni derivanti sia da input esterni sia da informazioni recuperate dalla memoria a lungo termine. Ha capacità limitata e, per questo, risente del sovraccarico di informazioni e/o processi elaborativi da svolgere (load effect), oltre ad essere particolarmente sensibile ad interferenze di vario genere.[24]
La memoria di lavoro nello sviluppo atipico
Le ricerche che, impiegando come riferimento il modello standard, hanno studiato i disturbi neuroevolutivi non hanno evidenziato un unico profilo, ma, a seconda del disturbo, hanno rilevato differenti punti di forza e di debolezza. Inoltre i deficit possono esser più o meno selettivi e interessare soltanto singole componenti o addirittura specifiche sotto-componenti e meccanismi funzionali della memoria di lavoro. […]
Una delle patologie dello sviluppo che ha suscitato maggiore interesse nei ricercatori è quella dei disturbi specifici del linguaggio (DSL). Il profilo tipico di bambini con DSL è caratterizzato da deficit selettivi del ciclo fonologico. Gathercole e Baddeley (1990) hanno ipotizzato che questo problema sia alla base del disturbo stesso e incida fortemente sull’apprendimento del vocabolario (Gathercole, 1998). Dai loro dati emerge che questi bambini, a 8 anni, mostrano in vari compiti linguistici prestazioni simili a quelle dei bambini di 6 anni.[25]
Studi condotti su gemelli hanno tuttavia dimostrato che i DSL e la dislessia siano in effetti disturbi evolutivi diversi che hanno in comune la causa: un deficit a carico della memoria di lavoro.[26]
Peraltro, la misurazione dell’abilità della memoria di lavoro è considerata unanimemente più “predittiva” delle abilità di lettura e in matematica di quanto la misurazione del quoziente d’intelligenza sia in grado di stabilire. Tuttavia, nonostante sia ancora difficile stabilire con certezza unanime cause fisiologiche e relativi effetti, vi è un interessante punto di convergenza su cui gli studiosi concordano a partire da Susan J. Pickering (2006) che «studiando i bambini con dislessia ha rilevato prestazioni basse in alcune misure del ciclo fonologico e dell’esecutivo centrale».[27]
Che funzioni dominio-generali come la memoria di lavoro siano essenziali per gli apprendimenti scolastici ce lo mostrano studi che confrontano bambini con QI nella norma o con QI sotto la norma accomunati tuttavia da deficit della memoria di lavoro. In questi casi si trova che siano compromessi la maggior parte degli apprendimenti scolastici (Maheler e Schuchardt 2009), indipendentemente dal QI. Molti studi (su questo punto, Orsolini 2011) trovano che deficit delle funzioni esecutive o della memoria di lavoro sono spesso alla base nell’apprendimento di lettura, scrittura, aritmetica e comprensione del testo in individui con QI nella norma.[28]
Altro punto di vista molto interessante è quello dello psicologo americano Keith Stanovich[29] per il quale l’insuccesso nell’apprendimento della corrispondenza tra grafemi e fonemi, necessario per imparare a leggere, è imputato principalmente al mancato sviluppo della consapevolezza fonologica.[30] Competenza quest’ultima che consente di elaborare il significato di una parola in relazione al suono corrispondente e, realizzandosi e affinandosi con la scolarizzazione, distingue i bambini in età prescolare. Indipendentemente da patologie, la consapevolezza fonologica si acquisisce più facilmente e rapidamente in lingue con ortografie trasparenti (come l’italiano) che in lingue con ortografie opache (come l’inglese).
L’attenzione
«L’attenzione è un insieme di risorse del sistema cognitivo umano che permette di concentrarsi su uno stimolo, a scapito di altri che appaiono simultaneamente al primo».[31] L’attenzione ha quindi carattere selettivo, blocca cioè l’elaborazione di tutte le informazioni irrilevanti e potenzialmente interferenti per il compito o per l’azione che si sta svolgendo (o preparando). L’attenzione ha risorse limitate: in altri termini, possiamo prestarla a poche cose alla volta. Si distingue in visiva o uditiva, a orientamento volontario (quella che applichiamo all’osservazione in dipendenza da uno scopo) o automatico (quando è innescata da uno stimolo interno o esterno), altrimenti definita rispettivamente esecutiva e volontaria da Lev Vygotskij.[32] Se viene applicata a uno spazio può concentrarsi sull’insieme, oppure focalizzarsi su una sua parte bloccando l’elaborazione di tutto ciò che cade al di fuori del suo focus. Suo atavico alleato è la motivazione e sua nemica insidiosa la noia, che può insorgere fisiologicamente (non siamo predisposti a mantenere l’attenzione a lungo perché il nostro cervello ricerca continuamente nuovi stimoli), oppure perché manca un adeguato apporto di ossigeno alle aree cerebrali preposte al suo funzionamento. Ma l’attenzione può flettere anche in dipendenza da fattori emotivi. Con la crescita l’attenzione affina le sue funzioni esecutive,[33]grazie alle quali diventiamo capaci di applicarla, concentrarla e mantenerla il più a lungo possibile.
Sull’attenzione si sono applicati gli studi “crosslinguistici”, quelli cioè che studiano le modalità di apprendimento di una lingua seconda[34] nel suo processo, e tutti i fattori d’interferenza recati dalla lingua materna. «Per Schmidt non c’è apprendimento senza attenzione: è grazie all’attenzione dell’apprendente verso ogni singolo fenomeno linguistico che si instaura il noticing, ossia la registrazione cognitiva di uno stimolo sensoriale e il suo immagazzinamento nella memoria di lavoro […] per la successiva elaborazione e quindi il suo apprendimento».[35] Per Pit Corder[36] «[…] non tutta la materia linguistica in L2 a cui l’apprendente è esposto, l’input, è da questi elaborata per esser successivamente interiorizzata, diventando intake e il processo di selezione che determina ciò che sarà promosso a intake è regolato dall’attenzione».[37] E l’intake è proprio ciò che il discente ha acquisito di un input, ovvero di uno stimolo culturale, sulla base del quale i docenti possono calibrare quello successivo. Questi processi, in cui l’attenzione ha un ruolo fondamentale, sono stati oggetto di osservazione empirica dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si è giunti a distinguervi due tipi di attenzione: una conscia (detection with awareness), l’altra inconscia (preconscious registration). Proprio la seconda può esser accertata con la tecnica del priming ovvero «l’effetto di facilitazione che uno stimolo visto/percepito precedentemente – anche inconsapevolmente – e connesso in qualche modo all’elemento target produce sulla performance di un apprendente.»[38] Ma questo è ormai argomento del capitolo che segue.
NOTE
[1] Lev Vygotskij è un importante psicologo russo vissuto tra XIX e XX secolo, l’eco della cui preziosa opera giunse in Italia solo a fine anni Sessanta dello scorso secolo.
[2] Prima della conoscenza dell’opera di Vygotskij se si riflette sull’impostazione che talvolta (specie in alcuni periodi storici) l’insegnamento ha avuto, ci si rende conto che esso era spesso informato (anche se non consapevolmente) soprattutto alla teoria stimolo-risposta di Skinner (1953): gli insegnanti proponevano attività e percorsi e poi andavano a constatarne i risultati. Ciò che accadeva nella mente degli alunni veniva non solo ignorato, ma addirittura, specie nei livelli scolastici superiori, considerato ininfluente, data la preminenza attribuita ai contenuti disciplinari. Reffieuna A. (2012) p. 105.
[3] Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) p. 24.
[4] Antonella Reffieuna è un’esperta di psicologia dello sviluppo. Insegna presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino.
[5] Reffieuna A. (2012) pp. 106 – 107.
[6] Reffieuna A. (2012) pp. 107 – 110.
[7] I giudizi di accettabilità sono le principali tecniche di stampo generativo adottate per misurare le competenze. In questo tipo di test, l’apprendente è sottoposto alla lettura o all’ascolto di strutture linguistiche delle quali deve valutare l’accettabilità. Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 71.
[8] Per processing s’intende il processo cognitivo, compiuto quotidianamente da ognuno, attraverso il quale il flusso continuo di suoni cui siamo esposti viene elaborato nel preciso istante in cui lo stiamo percependo, affinché ne possiamo individuare, immediatamente e tendenzialmente senza consapevolezza, la o le unità – per es. foni/grafi, lemmi, sintagmi o altro – che lo costituiscono, per coglierne il significato; in altre parole, ogni volta che percepiamo e comprendiamo un input linguistico, lo processiamo, cioè segmentiamo, riconosciamo, e classifichiamo le singole parti che lo costituiscono […] in poche frazioni di secondo, efficacemente e in modo automatico. Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 219.
[9] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 71.
[10] Transcodifica è un termine di derivazione informatica che è descrittivo di entrambi questi processi.
[11] Reffieuna A. (2012) p. 303.
[12] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 229.
[13] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 230.
[14] I grafemi sono definiti come quelle stringhe ortografiche che corrispondono a un solo suono. In italiano i grafemi vengono solitamente a coincidere con le singole lettere, a parte casi come le stringhe GLI in figlio, o GN in gnomo, per esempio. In inglese la corrispondenza è assai più complessa. Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 231.
[15] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 230 – 232.
[16] Uta Frith è una psichiatra tedesca.
[17] In sede sperimentale si sceglie la lingua inglese perché, rispetto all’italiano, presenta maggiori difficoltà di elaborazione fonetica.
[18] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 233- 234.
[19] Un’ipotesi alternativa al riguardo è quella avanzata da Share (1995) e denominata ipotesi dell’autoistruzione (self-teaching hypothesis): ogni decodifica corretta di una parola non familiare fornisce al lettore l’opportunità di acquisire e memorizzare informazioni ortografiche, specifiche per quella parola. In altri termini, dopo aver letto fonologicamente per un certo numero di volte una data stringa, essa comincia a essere memorizzata nel lessico ortografico (Cunningham et al., 2002). Orsolini M., Fanari R., Maronato C. (2005) p. 44.
Anche la scrittura ha probabilmente un ruolo importante nella costruzione della lettura lessicale. Shahar-Yames e Share (2008) ipotizzano, seguendo la teoria di Share, che anche la scrittura svolga una funzione di autoistruzione per l’acquisizione delle rappresentazioni ortografiche delle parole poiché richiede di riprodurre dalla memoria la stringa di lettere completa. La scrittura è risultata, nel lavoro degli autori, anche più efficace della lettura come meccanismo di self-teaching, in quanto costringe all’elaborazione di ogni singola lettera. Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 236 – 237.
[20] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 240.
[21] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) pp. 242 – 243.
[22] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) pp. 163 – 165.
[23] La memoria a lungo termine è rappresentata nel grafico dall’acronimo MLT.
[24] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) pp. 166 – 167.
[25] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) p. 170.
[26] Orsolini M, Fanari R., Maronato C. (2005) p. 59.
[27] Melogno S., La memoria di lavoro in Orsolini M. (a cura di, 2011) p. 171.
[28] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 243.
[29] Keith Stanovich è un eminente studioso statunitense della dislessia evolutiva.
[30] Fanari R., Scalisi G., Orsolini M. (2013) p. 246.
[31] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) pp. 234 – 235.
[32] Per un quadro può esaustivo sulle varie definizioni di attenzione si confronti Orsolini M. (2011) pp. 131 – 145.
[33] Le funzioni esecutive sono quei processi cognitivi che permettono all’essere umano di mantenere un appropriato orientamento per il raggiungimento di uno scopo […] interagiscono con le elaborazioni che avvengono in specifici domini (ad es.: linguaggio, aritmetica) e con i processi che coinvolgono altre funzioni cognitive (percezione, memoria, ragionamento). Orsolini M. (2011) p. 185.
[34] Si definisce lingua seconda, o L2, una lingua diversa dalla materna, inizialmente straniera, appresa prevalentemente in contesti extrascolastici.
[35] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 235.
[36] Stephen Pit Corder è un linguista vissuto nel XX secolo nel Regno Unito. È uno dei più autorevoli teorici dei fenomeni “crosslinguistici”.
[37] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 235.
[38] Adorno C., Valentini A., Grassi R. (2017) p. 241.